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Il superuomo e l’estetismo nei romanzi di D’Annunzio

Emblema della Belle Époque, figura eccentrica e poliedrica, D’Annunzio rappresenta l’esito e il destino cui l’uomo si avvia quando mette sé e il proprio arbitrio sul piedistallo. È lui ad aprire la stagione del Decadentismo esteta in Italia con il romanzo Il piacere. Ed è sempre lui a rendere celebre con i suoi romanzi il verbo di Nietzsche.

L’ESERCITAZIONE

Culture 14_04_2020

Figura eclettica e, al contempo, eccentrica, poliedrica e versata in diversi campi, poeta, drammaturgo e romanziere, pubblicista e sceneggiatore, abile self promoter, Gabriele D’Annunzio (1863-1938) è l’artista con cui tutti i contemporanei si devono confrontare, sia che lo amino e cerchino di imitarlo sia che lo osteggino e lo avversino apertamente. Non si può non studiare e conoscere D’Annunzio, se si voglia comprendere da un lato l’Italia di passaggio tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, dall’altro la letteratura del secolo scorso.

Con espressione pregnante Montale scrisse che D’Annunzio deve essere «attraversato»: di trent’anni più giovane, il poeta genovese lo identificò come idolo polemico sia nella poesia I limoni nella prima raccolta Ossi di seppia (1925) sia in Piove nella raccolta Satura (1971), ove fece la parodia de La pioggia nel pineto.

D’Annunzio è emblema della Belle Époque, corifeo dell’esasperata ricerca edonistica di quell’epoca, ma anche specchio in cui l’uomo di oggi rischia di riconoscersi nella voluttà e nell’incapacità di conservare rapporti stabili. Rappresenta, quindi, anche se con una patina edulcorata e raffinata, la nostra epoca, l’esito e il destino cui l’uomo si avvia quando mette sé e il proprio arbitrio sul piedistallo. In nome della fama, del successo, del potere e dei soldi si può vendere una parte di sé.

In ogni campo D’Annunzio profonde i suoi sforzi manifestando un’assoluta mania di protagonismo, assumendo per osmosi sollecitazioni e suggestioni letterarie, musicali, filosofiche, rilette a suo modo o ridotte spesso ad una semplificazione o ad una strumentale banalizzazione.

È lui ad aprire la stagione del Decadentismo esteta in Italia con il romanzo Il piacere (1889) che appartiene al “ciclo della rosa”, emblema dell’estetismo dannunziano, trilogia di cui fanno parte anche L’innocente (1892) e Il trionfo della morte (1894). Andrea Sperelli, protagonista de Il piacere è, in un certo senso, il fratello minore di Des Esseintes, esteta del romanzo À rebours di J. K. Huysmans che apre la stagione dell’estetismo europeo nel 1884, pubblicato in Italia sia con il titolo A ritroso che Controcorrente. Raffinato, sempre alla ricerca di nuove sensazioni, il protagonista Andrea Sperelli crede che si debbano assaporare i piaceri della vita, senza alcuna responsabilità e vincolo relazionale, educato dal padre secondo alcune massime: «habere, non haberi», cioè «possedere, mai farsi possedere», esprimibile anche nel concetto di non innamorarsi mai, mai farsi irretire dalla gabbia dell’amore; «bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte»; «il sofisma è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. […] Forse la scienza della vita sta nell’oscurare la verità». Questi principi ingannano in primis lo stesso Andrea Sperelli, tanto che la menzogna diventa un abito così «aderente alla coscienza» che il personaggio giunge a non poter mai «essere interamente sincero». Le massime del padre plasmano il figlio, annientando in lui la già fragile volontà.

È sempre D’Annunzio a rendere celebre il verbo nicciano in Italia nei suoi romanzi, dopo aver letto i libri di Nietzsche nel 1892. Anche in questo caso la rilettura dannunziana è finalizzata a presentare il nuovo superuomo in una chiave personalistica. L’insuccesso e il successo sono due facce della stessa medaglia dell’inettitudine contemporanea, un’inettitudine che proviene proprio dal fatto che i personaggi non hanno più un fondamento su cui consistere. I personaggi dannunziani inseguono disperatamente la riuscita nella vita, in qualsiasi ambito, dall’arte alla conquista sentimentale fino all’impresa sportiva. L’universo romanzesco di D’Annunzio si popola di superuomini che interpretano le passioni di quel poeta che è stato anche romanziere, pilota, soldato, politico, conquistatore di donne. Così, ne Le vergini delle rocce emerge un superuomo politico (Claudio Cantelmo), ne Il fuoco campeggia un artista che vuole creare un nuovo genere artistico (Stelio Effrena), in Forse che sì, forse che no un aviatore (Paolo Tarsis).

Questi superuomini dannunziani sono, in ultima analisi, rappresentanti dell’homo divus, un uomo d’eccezione che primeggia in un campo. Anche se il nuovo verbo nicciano compare per la prima volta nel Trionfo della morte (1894) solo nella parte finale del romanzo (nel V libro intitolato Tempus destruendi), in realtà la prima opera in cui lo scrittore presenta il progetto della nascita del superuomo è Le vergini delle rocce (1895).

D’Annunzio inveisce contro l’omologazione, proprio lui che, proponendosi come l’inimitabile, è coscientemente e volontariamente promotore di atteggiamenti eccentrici che fungano da modello per il potente ceto borghese. Le prerogative del nuovo capo d’Italia, del superuomo che sarà figlio di Claudio Cantelmo (che deve scegliere in sposa una delle tre figlie del principe Capece Montaga), corifeo del Verbo, «nuovo Messia in terra», saranno forza, violenza e disciplina. L’interprete della nuova stagione dannunziano–superomistica compendia la presunta superiorità di gusto culturale ed estetico con il fascino di colui che sperimenta sempre nuovi campi imponendosi con l’eccellenza.

Cantelmo rappresenta, quindi, l’esteta che esce dal suo ambito solitario per collaborare alla realizzazione politica di un mondo nuovo, in cui bellezza e forza tornino a trionfare contro la volgarità e la debolezza. È, quindi, un esteta differente da Andrea Sperelli più incline alla propria soddisfazione edonistica. In un certo senso Cantelmo assume una dimensione pubblica e, nel contempo, comunica la visione della cultura e della storia propria di d’Annunzio:

Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi amplificato e ornato nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro. Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare. […] Difendete la Bellezza! […] il sogno che è in voi […]. Attendete ad inacerbire con i più acri veleni le punte del vostro scherno. […] Difendete il Pensiero ch’essi [ovvero quanti sostengono il sistema democratico] minacciano, la Bellezza ch’essi oltraggiano! […] Non disperate essendo in pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo. Un ordine di parole può vincere d’efficacia micidiale una formula chimica.

Cantelmo attacca la democrazia, l’omologazione («teste umane tutte simili come le teste dei chiodi»), i parlamentari che pronunciano discorsi che hanno il suono dei rutti emessi dai contadini dopo aver mangiato legumi e le cui mani sono ricoperte di sterco e di letame non meno di quelle della meretrice Taide nel canto XVIII dell’Inferno. Cantelmo definisce i parlamentari come gli «stallieri della Grande bestia», espressione nicciana per indicare il popolo, qui definito anche «schiavi ubriachi», cioè coloro che nelle rivoluzioni distruggono le opere d’arte con ferocia irrefrenabile.

Ne Il fuoco, estetismo e superomismo si fondono nella figura di Stelio Effrena che si lega in un rapporto sentimentale con l’attrice Foscarina, relazione in cui è rappresentata, in modo neanche velato, la storia d’amore del poeta con Eleonora Duse. Venezia e le splendide ville del Brenta diventano scenario della vicenda sentimentale di due personaggi d’eccezione. Drammaturgo oltre che oratore, Stelio Effrena vuole rinnovare il genere teatrale, fondendolo con la musica e la poesia. L’artista si sente investito del ruolo di guida del popolo, anche se nel suo intimo lo disprezza.

L’atmosfera decadente in cui si svolge il flebile intreccio del romanzo, il linguaggio sensuale, il ritmo e la prosa musicale, la rappresentazione dei palpiti d’amore d’incerta decifrazione creano grande attesa in un pubblico che nella storia dei protagonisti vuole carpire informazioni sulla reale vicenda tra D’Annunzio e la celebre attrice italiana. Non è un caso che un amico della Duse le avesse sconsigliato di autorizzare la pubblicazione del romanzo.

In ultima analisi anche il personaggio dannunziano Effrena è mosso da quell’«abisso di vita» che non fa star tranquillo il Miguel Mañara di Oscar Milosz, ma è convinto che sia la ricchezza delle esperienze sensoriali che possa saziare il suo desiderio. E in questa continua ricerca di ebbrezza dei sensi il protagonista fatica a cogliere il vuoto dell’animo.

In Foscarina c’è, invece, tutta la percezione del fallimento sia della storia sentimentale che della presunzione superomistica di Effrena, anticipazione dell’esito finale del rapporto della coppia come pure del progetto artistico.

Così D’Annunzio descrive la Foscarina:

La fedeltà eroica di Antigone, il furore fatidico di Cassandra, la divorante febbre di Fedra, la ferocia di Medea, il sacrifizio d’Ifigenia, Mirra dinanzi al padre, Polissena e Alceste dinanzi alla morte, Cleopatra volubile come il vento e la vampa sul mondo, Lady Macbeth veggente carnefice dalle piccole mani, e i grandi gigli imperlati di rugiade e di lacrime, Imogene, Giulietta, Miranda, e Rosalinda e Jessica e Perdita, le più dolci anime e le più terribili e le più magnifiche erano in lei, abitavano il suo corpo, balenavano per le sue pupille, respiravano per la sua bocca che sapeva il miele e il veleno, la coppa gemmata e la tazza di scorza.

Che distanza dall’incipit de La lupa verghiana:

Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna - e pure non era più giovane - era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai - di nulla.

Per questo Pirandello coglieva bene la distinzione tra Verga e D’Annunzio, descrivendo il primo scrittore di cose e il secondo scrittore di parole:


Giovanni Verga è il più «antiletterario» degli scrittori; il D’Annunzio è tutto letteratura, anche là dove l’esperta e istrutta, acutissima sensibilità riesce a farlo veramente vivo: noi sentiamo sempre che è «troppo» anche là, e che questo troppo gli è dato dalla letteratura, la quale ha arricchito col più dovizioso ausilio verbale, raffinandolo fin quasi a renderlo anormale, il nativo acume dei suoi sensi vivi.

Alla fine Foscarina partirà per una lunga tournée lasciando l’amante nelle braccia della più giovane rivale. Effrena porterà la bara del grande compositore Richard Wagner, morto a Venezia. Lo stesso D’Annunzio si vantò di aver partecipato alle esequie del musicista tedesco. Ma il fatto non corrisponde alla realtà.

D’Annunzio non terminerà la “trilogia del melograno”, cui appartiene Il fuoco: una volta ancora, il progetto di realizzare il superuomo fallisce; la trilogia non sarà terminata, rimanendo solo al primo volume.

Gli echi superomistici ritorneranno nel romanzo Forse che sì, forse che no (1910) in cui l’aviatore Paolo Tarsis (nome che è evidente parodia di san Paolo di Tarso) è l’unico personaggio dannunziano che riesce nell’impresa progettata (la traversata in aereo del Mar Tirreno). Specchio di D’Annunzio, il protagonista ha, in realtà, poco in comune con il superuomo teorizzato dal filosofo tedesco, che persegue l’annichilimento di tutti i valori del passato, l’annullamento della tradizione, la volontà di potenza e la creazione di nuovi valori. Come il bambino, il superuomo nicciano non conosce passato e futuro, vive solo per il presente.

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