Wojtyla e il rinnovamento della morale
Contro il relativismo contemporaneo affermò la libertà intesa anzitutto come possibilità di autentica crescita umana nella felicità della virtù.
Il 5 ottobre del 1993 Giovanni Paolo II pubblica la sua decima enciclica, Veritatis Splendor, rivolta a tutti i vescovi della Chiesa cattolica, in cui affronta «alcune questioni fondamentali dell'insegnamento morale». Il Papa aveva annunciato per la prima volta l'intenzione di affrontare le questioni riguardanti i fondamenti stessi della teologia morale nella lettera apostolica Spiritus Domini del 1987, scritta in occasione del bicentenario della morte di sant'Alfonso Maria de' Liguori, teologo morale del Settecento; dunque erano almeno sei anni che la Veritatis Splendor era allo studio. Tuttavia la pubblicazione dell'enciclica ha dovuto attendere la promulgazione del Catechismo della Chiesa cattolica (I ed. 1992) che, contenendo un'esposizione completa e sistematica della dottrina morale cristiana, si presenta come uno strumento essenziale per definire il contesto della riflessione sui fondamenti del pensiero morale e per analizzare le difficoltà della teologia morale soprattutto in relazione alla cultura moderna.
La Veritatis Splendor non ha solo lo scopo di correggere gli errori sulla morale accreditati da alcuni teologi, ma il suo obiettivo principale, coerente con il grande progetto della “nuova evangelizzazione”, è di definire il contesto dello sviluppo della teologia morale cattolica nel XXI secolo, favorendo l'attuazione del Concilio Vaticano II anche nell'ambito della morale. Essa risponde all'invito del Decreto conciliare Optatam totius a sviluppare la teologia morale, recuperando i temi teologici fondamentali della tradizione cristiana, e a nobilitare la vocazione dei laici.
Il Concilio non aveva approfondito la questione e dopo la sua chiusura era sorta una controversia riguardo alla natura di tale sviluppo e ai suoi rapporti con le fonti della teologia morale: la Bibbia, i Padri della Chiesa, san Tommaso d'Aquino. I contendenti venivano usualmente divisi tra “progressisti” e “conservatori”. I “prograssisti”, che avevano criticato con forza il legalismo e la rigidità dei manuali di morale preconciliari, continuavano a identificare la libertà con la sua versione moderna, cioè con l'autodeterminazione, limitandosi a spostare il centro dell'analisi morale dall'atto alle conseguenze e alle intenzioni di chi lo compie, rimanendo così all'interno di un orizzonte di conflitto tra legge e libertà. Molte teologie postconciliari avevano di conseguenza minimizzato o negato l'esistenza di atti in sé malvagi, indebolendo la morale e, contemporaneamente, rafforzando le tendenze al relativismo.
I teologi “conservatori”, pur difendendo l'esistenza della “legge naturale” e opponendosi sia alla cosiddetta “gradualità della legge”, che fa della debolezza umana il criterio della verità sul bene, sia alla teoria dell'”opzione fondamentale”, secondo cui ciò che conta non è il singolo atto malvagio, quanto l'orientamento generale dell'esistenza, erano in difficoltà a definire un'idea di libertà come possibilità di crescita nella felicità della virtù, tramite la quale l'uomo diviene adatto al proprio destino: la vita vera nell'eternità.
Sia i progressisti sia i conservatori finivano per continuare a muoversi all'interno del medesimo, inadeguato, terreno, i primi accogliendo, i secondi contrastando l'idea di libertà posta in campo dalla modernità.
Il genuino rinnovamento della morale prospettato dalla Veritatis Splendor giunge dal recupero e dall'approfondimento del rapporto della libertà con la verità e il bene: non si tratta più d'individuare il limite del lecito, superando il quale si cade in peccato, ma di porre al centro la bontà e la beatitudine come vero orizzonte della riflessione morale.
È stato giustamente osservato che uno dei nuclei dottinali più importanti della Veritatis Splendor è costituito dall'affermazione dell'esistenza di atti intrinsecamente cattivi, di atti, cioè, che sono cattivi per il loro oggetto, indipendentemente dalle intenzioni di chi agisce e dalle circostanze (VS 80). In questo insegnamento, secondo Giovanni Paolo II «si concentra in un certo senso la questione stessa dell'uomo, della sua verità» (VS 83); l'atto intrinsecamente cattivo è tale perchè nega e distrugge l'essere stesso della persona umana. In esso si manifesta il nesso essere-verità-libertà: l'essere dell'uomo è dato alla sua libertà nel senso che l'uomo si qualifica a seconda delle scelte che compie, ma le scelte sono sempre determinate da una ragione, cioè sono sempre precedute da una conoscenza riguardo al bene (vero o ritenuto tale) della persona, che è un atto di ragione.
La libertà non è perciò autodeterminazione assoluta, la sua radice sta nella verità dell'essere della persona e solo la custodia del nesso tra essere, verità e libertà tutela il valore della libertà stessa. Affermando con forza l'esistenza di atti intrinsecamente malvagi, il Papa afferma il dramma della decisione morale, riconoscendo che la libertà può privare l'uomo di un bene che riguarda il suo stesso essere; così come, mediante la scelta della verità del bene, può consentirgli di raggiungere una maggiore pienezza di essere.
In un clima morale dominato dal relativismo, Giovanni Paolo II, con il suo insegnamento sul collegamento tra libertà e verità, ribadisce che nella natura umana è insita una legge morale universale che spinge a scegliere il bene e non il conveniente e che costituisce l'unica reale possibilità di dialogo tra persone di diversa cultura.
Ci si sarebbe aspettati che la Veritatis Splendor suscitasse, almeno in ambito cattolico, un serio dibattito sulla natura e il valore della verità, sul suo legame con la libertà, sul modo di trasferire questi insegnamenti nella catechesi e nella pastorale, invece la maggior parte delle reazioni sono state contraddistinte più dallo scetticismo che da un serio impegno critico.
George Weigel, teologo cattolico e biografo di Giovanni Paolo II, osserva che «molti teologi, in disaccordo con l'enciclica, la considerarono una mossa del Papa nella battaglia per il potere intellettuale all'interno della Chiesa e non ne notarono affatto la tensione per il rafforzamento dei fondamenti morali delle società libere» (Testimone della speranza, p. 869); l'americano Charles Curran liquiderà l'enciclica imputandole di non rendersi conto dei problemi attuali della teologia morale cattolica; Lawrence Cunningam l'accuserà di voler imporre a tutta la Chiesa il punto di vista di una scuola teologica; il mondo teologico di lingua tedesca si arroccherà per lo più su posizioni piccate puntualizzando che, se il Papa aveva ragione nel rifiutare le teorie consequenzialiste, proporzionaliste e dell'opzione fondamentale, nessun teologo le aveva mai codificate così come erano state ricostruite nell'enciclica.
Dopo quasi vent'anni dalla promulgazione dell'enciclica il rinnovamento dei temi teologici fondati sulla centralità della nozione di libertà legata al vero e al bene rimane ancora da avviare; questo compito tuttavia non può essere affrontato se contemporaneamente non si recupera una comune concezione di verità morale, la cui perdita, avvenuta sotto l'influenza della filosofia nominalista e della conseguente identificazione della libertà con la volontà, ha condotto gli uomini del nostro tempo all'esercizio della volontà come potere senza limiti.