Ucraina, la condanna storica di confini sbagliati
Raggiunta una tregua fra governo e opposizione è bene riflettere su quel che è realmente l'Ucraina. Si deve ricordare che ci sono, non una, ma molte "Ucraine", unificate artificialmente dall'Unione Sovietica.
«La nuova Bussola quotidiana» ha pubblicato parecchi articoli, bene informati, di Stefano Magni sul dramma dell’Ucraina. Intervengo con un contributo da sociologo, che conosce qualcosa dell’Ucraina anche perché nell’anno del mandato all’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) ho condotto una visita ufficiale in quel Paese – si chiamano così, ma hanno un evidente aspetto ispettivo – e sono co-autore del successivo rapporto prodotto dall’OSCE in tema di diritti umani in Ucraina.
La lettura corrente della situazione ucraina prescinde spesso dal dato demografico e geografico, che è invece fondamentale. La storia si ripete sempre finché la geografia non cambia. Si dimentica quello che i sociologi sanno: che la nozione stessa di «Ucraina» è stata socialmente costruita e spesso politicamente contestata. La Crimea per quasi quattro secoli è stata governata da un Khanato erede diretto di Gengis Khan (1162-1227), finché come risultato del «colonialismo via terra» russo fu conquistata a trasformata nel Governatorato della Tauride, prima di essere incorporata dai comunisti nella Repubblica Russa e poi in quella ucraina. Una buona parte di quella che oggi è chiamata Ucraina Occidentale è stata parte della Polonia fino alla Seconda guerra mondiale. La Bessarabia del Sud è stata storicamente parte della Moldavia e della Romania, fino a essere annessa alla repubblica sovietica dell’Ucraina nel 1940. Questa «invenzione dell’Ucraina» risponde alla logica leninista e stalinista di costruire repubbliche tagliando e cucendo sulla carta geografica, ma anche al tentativo di isolare la resistenza armata anticomunista – che in Ucraina è durata fino agli anni 1950 – facendo diminuire nella Repubblica la percentuale di ucrainofoni rispetto a quella dei russofoni, e la percentuale dei cattolici (quasi tutti anticomunisti) rispetto agli ortodossi. Il risultato è uno dei tanti Paesi con frontiere ampiamente artificiali.
Molti russofoni sono emigrati in Russia o altrove – il Paese dove sono emigrati più ucraini (200.000) oggi è l’Italia, e molti sono russofoni – così che oggi sono meno di un tempo: si dice 18% ma i censimenti sono a loro volta un atto politico, l’ultimo è stato fatto nel 2001 e il prossimo sarà nel 2016. Quella che è certa è la contrapposizione fra le regioni orientali, in maggioranza russofone e ortodosse, e le regioni occidentali, in maggioranza ucrainofone, e con una robusta presenza cattolica accanto agli ortodossi, che peraltro sono spaccati in due patriarcati rivali, uno leale a quello di Mosca e uno nazionalista, oggi maggioritario, che incentra la sua esistenza sull’indipendenza dalla Russia.
L’Ucraina ha in assoluto uno dei più bassi tassi di fertilità del mondo (1,53), ma questo è la media di un tasso più alto nelle regioni occidentali e di uno da record del mondo negativo nelle regioni orientali russofone (una è addirittura a 1,24 – ricordo che il tasso minimo per assicurare il ricambio generazionale è 2,1). In compenso, tutta l’Ucraina non è particolarmente ricca, ma il tasso di povertà è significativamente più alto nell’Ucraina occidentale (49% nelle campagne e 45% nelle città) rispetto a quella orientale (35%). Questo si deve anche a maggiori investimenti nell’epoca comunista nella zona orientale e russofona.
Ci sono molte Ucraine: si dovrebbe ancora parlare dei musulmani tatari di Crimea e bulgari, dei rom – che hanno gravi problemi di diritti umani – e del fatto che i quattro quinti degli ebrei ucraini, che erano ancora 500.000 nel 1989, sono emigrati dopo l’indipendenza, ma il quinto che rimane (100.000 persone) costituisce ancora una minoranza ebraica tripla rispetto a quella italiana in un Paese meno popolato (45 milioni). Tuttavia le Ucraine principali sono sostanzialmente due: quella occidentale, con città principale Leopoli (Lviv, 760.000 abitanti), e quella orientale, dove il centro più grande è Kharkov (1.400.000 abitanti), culla del comunismo ucraino e prima capitale della Repubblica sovietica dell’Ucraina. Kiev (2.800.000 abitanti), con moltissimi immigrati inurbati dal resto del Paese, sta nel mezzo. Non a caso abbiamo ascoltato nei giorni scorsi dichiarazioni separatiste sia a Leopoli sia a Kharkov.
Uno dei problemi, che ho personalmente constatato nella visita OSCE, è che i russofoni dell’Ucraina orientale, teoricamente in minoranza (ma più ricchi), occupano un numero sproporzionato di posizioni politiche, amministrative e di governo. Il presidente Yanukovytch viene dall’Est del Paese e parla un ucraino stentato, così come il primo ministro Arbuzov. Perché mai gli ucraini in maggioranza ucrainofoni eleggono dei russofoni dell’Est? La risposta della maggior parte degli osservatori delle elezioni, OSCE compresa, è che non li eleggono e le elezioni sono truccate. Indire nuove elezioni sposta dunque i problemi ma non li risolve, a meno di garantire agli ucraini che il prossimo voto sarà senza brogli.
Già Samuel Huntington (1927-2008) aveva individuato la «linea di faglia» ucraina nel suo libro sugli scontri di civiltà, e per lui in questi casi una soluzione ragionevole è il taglio: gli ucraini che si sentono occidentali ed europei in uno Stato e quelli che si sentono orientali e russi in un altro. Tuttavia il regime sovietico ha spostato popolazioni come pedine su una scacchiera per evitare che si consolidassero nazionalismi insurrezionali, e oggi questa soluzione, che pure emerge in diversi articoli di studiosi internazionali, è molto difficile da mettere in pratica. Il rischio è di una «super-Jugoslavia», con una guerra civile seguita dall’emergere da più di due Stati (la Crimea è un mondo a parte, con la flotta russa che staziona nel porto di Sebastopoli).
Quanto allo scenario geopolitico, la Russia ha le idee chiare: ricostruire uno spazio euro-asiatico di Paesi satelliti, versione moderna degli imperi zarista primo e sovietico poi – ed è disponibile a mobilitare grandi risorse per mettere queste idee in pratica (15 miliardi di dollari al governo ucraino, un esborso non indolore neppure per il ricco Tesoro russo). Gli Stati Uniti di Obama sono sempre più disimpegnati dallo scacchiere europeo, e forse da tutti gli scacchieri. L’Unione Europea avrebbe un interesse teorico ad acquisire il mercato ucraino, che è strategico, per non parlare dei gasdotti (quarantamila chilometri di tubi, fra gasdotti e oleodotti, anche se Putin e la Germania, che diffidano dell’Ucraina, privilegiano percorsi alternativi) e dei cereali, di cui l’Ucraina, granaio dell’Europa e non più della Russia, è un fornitore sempre più importante anche per l’Italia. Tuttavia l’Unione Europea non ha una politica estera comune – la diplomatica americana Victoria Nuland intercettata mentre mandava l’Unione Europea a quel Paese non a caso è la moglie del teorico neoconservatore (oggi però avvicinatosi a Obama) Robert Kagan, quello per cui gli Europei vengono da Venere, la dea delle mollezze e dei piaceri, e gli americani da Marte, il dio del lavoro e della guerra –, ognuno persegue il suo interesse particolare, e soprattutto la Germania non vuole farsi carico di quel cinquanta per cento o quasi della popolazione ucraina che vive sotto la soglia di povertà.
È vero, gran parte degli attacchi a Putin sono ideologici: danno fastidio le sue posizioni non «politicamente corrette» sull’omosessualità e non solo. Ma è anche vero che l’Ucraina com’è stata disegnata dai drammi della storia, con pezzi di Polonia cattolica strappati alla Polonia e distretti prevalentemente cattolici, e con un tenace sentimento anti-russo alimentato da decenni di resistenza anti-sovietica che contagia anche una parte degli ortodossi (con frange che identificano il potere russo con il potere di oligarchi in buona parte di origine ebraica, e usano toni effettivamente antisemiti e inaccettabili), non può essere trattata semplicemente come un satellite russo se non dispiegando una feroce repressione militare, i cui costi sarebbero altissimi anche per la stessa Russia. Per evitare la Jugoslavia occorre sedersi a un tavolo, dove gli occidentali – ammesso che ve ne siano capaci di visioni strategiche, e non interessati solo allo spread o ai gasdotti, che peraltro non sono irrilevanti – depongano i loro pregiudizi contro Putin, e Putin accetti dal canto suo di rinunciare a qualcosa.