St. John the Evangelist by Ermes Dovico
CINEMA D'ESTATE

Rocky, ascesi e lotta di uno sconfitto che amiamo

Rocky è un capolavoro del Cinema. Il suo messaggio fondamentale, tratto da una storia vera, sta proprio nella sconfitta dello "Stallone italiano". Non ammiriamo chi vince: ammiriamo chi lotta, chi si spende senza risparmio, chi affronta il proprio limite. Perché questo è il vero avversario, nello sport: non quello che ci sta di fronte, ma quello che è dentro di noi.

Cinema e tv 27_08_2021

Il miglior film sullo sport? Non ho dubbi: Rocky, del 1976, scritto e interpretato da Sylvester Stallone. D’accordo, dal punto di vista pugilistico fa storcere il naso; ed è evidentemente stato girato con un budget ridotto. Tuttavia è davvero un film eccezionale, non solo perché ha avuto dieci nomination agli Oscar e ne ha vinti tre (miglior film, miglior regista e miglior montaggio). Ci sono anche due aspetti importanti di questo film che vorrei sottolineare.

Il primo: è tratto da una storia vera. Nel 1975 Stallone era disperato. Stava tentando di entrare nel mondo del cinema, a parte qualche piccola parte, non riusciva a rimediare niente. Aveva deciso di giocarsi un'ultima carta come sceneggiatore; ma la storia che sognava, una storia fatta di «eroismo, grande amore, dignità e coraggio» non voleva prendere forma. Ricevette un biglietto-omaggio per un incontro di pugilato che si sarebbe tenuto il 24 marzo di quell’anno ma che si presentava come poco interessante. Uno dei pugili aveva un gran nome: Mohammed Alì, oro olimpico a Roma e due volte campione del mondo dei pesi massimi. L’altro era pressoché sconosciuto e, quando era noto, non godeva di buona fama: Chuck Wepner. Bianco, tutt’altro che statuario (avete presente Ken Norton o George Foreman?), quasi calvo, aveva un difetto per cui i pugili evitavano di incontrarlo: aveva una pelle fragilissima, che si spaccava continuamente e che iniziava a colare sangue dopo pochi colpi.

Ogni incontro con Wepner lasciava sul tappeto un lago di sangue che nemmeno un film splatter, tanto che era noto con il nomignolo di «Bayonne Beeder», il sanguinolento di Bayonne (sua città natale) o l’emorragia di Bayonne. Sulla carta, l’incontro era scontato: vittoria di Alì in pochi round; la sproporzione tecnica e fisica tra i due pugili era enorme. Eppure… sorpresa! Sebbene con il volto ridotto a una maschera di sangue pochi minuti dopo l’inizio dello scontro, Wepner continuava ad avanzare: Ali lo martellava con i suoi terribili jab, eppure egli mostrava una forza d’animo impressionante.

Al nono round, il colpo di scena: Alì finì al tappeto, una delle rare volte della sua carriera. La cosa lo fece infuriare e, rialzatosi, cominciò a bersagliare di colpi Wepner; ma il bianco continuava a resistere e ad avanzare, mostrando una tenacia ed un coraggio che conquistarono il cuore del pubblico, ormai dalla sua parte. L'arbitro fermò l'incontro all'ultimo round, il quindicesimo, a diciannove secondi dalla conclusione naturale del match. Il pubblico, profondamente impressionato e conquistato dal coraggio indomito di Wepner, inveì contro l'arbitro, che aveva privato Wepner dell'onore di concludere in piedi l’incontro con il campione del mondo. Stallone, che era tra il pubblico, aveva trovato la sua grande storia che lo lanciò nel firmamento hollywoodiano. Quella sera nacque Rocky Balboa, lo stallone italiano. A Wepner, alla sua vita e a quell’indimenticabile incontro di pugilato, furono dedicati due film: Chuck (2016) e The Brawler (2019).

Il secondo aspetto: Rocky, quell’incontro… lo perde. Il pubblico, nel film, e gli spettatori della pellicola fanno il tifo e si esaltano… per uno che perde. Non molti lo notano, ma questo è un messaggio fondamentale. Non ammiriamo chi vince: ammiriamo chi lotta, chi si spende senza risparmio, chi affronta il proprio limite. Perché questo è il vero avversario, nello sport: non quello che ci sta di fronte, ma quello che è dentro di noi. Abbiamo di fronte una persona che si mette a disposizione, a volte a costo della propria incolumità, perché noi possiamo diventare una persona migliore; compiere, attraverso la competizione sportiva, una ascesi.

Ecco perché non c’è odio, sul ring: ci si dà la mano prima del’incontro, ci si abbraccia dopo. Questo ci riporta ad un’altra storia pugilistica: la competizione sportiva e l’amicizia umana tra il nostro Nino Benvenuti ed Emile Griffith. Si incontrarono, sul ring, tre volte; e se le diedero di santa ragione. E divennero unitissimi, al punto che, quando Griffith ha avuto difficoltà (di vario genere) Benvenuti non ha esitato a salire su un aereo e a correre in soccorso dell’amico; perché «non puoi non diventare amico di un pugile con il quale hai condiviso 45 round sul ring». Al di là dell’amicizia, resta questa grande verità: non siamo e non saremo giudicati in base alla vittoria o al successo, ma a quanto e come avremo servito.