AL CUORE DI LEOPARDI/11

La quiete dopo la tempesta non è vera gioia

Una gioia particolare ci viene dopo un periodo di sventure, di malattia, di scampato pericolo. La felicità vera non può "essere figlia di affanno". Anche se la sofferenza, nel tempo, può condurci dialetticamente al bene.

Culture 24_11_2013
La quiete dopo la tempesta

Il problema umano è, quindi, riconducibile a questa situazione: il cuore anela ad una felicità infinita, i beni e i piaceri di cui noi possiamo godere sono finiti e limitati, per quanto grandi, l’uomo non riesce a creare un bene infinito che lo soddisfi, l’unica possibilità è che un bene infinito si renda, Lui, presente, si manifesti, si faccia incontrare. Sarebbe un’epifania.

L’uomo, però, non riesce a sostenere da solo e a lungo il senso di sproporzione, di vertigine che prova di fronte al Mistero, all’Infinito, quel rapporto di fronte all’assoluto che fa riconoscere la propria piccolezza e desiderare che il Mistero si riveli, che si traduce in domanda, in preghiera. Solo davanti ad una presenza e a un grande amore, infatti, l’uomo abbandona i propri progetti e abbraccia quello che ha incontrato. Altrimenti, quando domina il senso dell’assenza, prevale una desolazione sconsolata o magari una gaia disperazione che ricorre a rimedi illusori per la felicità. Leopardi sottolinea in tutta la sua produzione le risposte illusorie che gli uomini o la natura forniscono alla domanda di felicità: l’ideologia, il divertissement, la moltitudine dei piaceri, l’immaginazione, la memoria, l’attesa, il piacere «figlio d’affanno» (di cui parleremo in questo articolo) e il ritorno allo stato di natura (di cui ci occuperemo la prossima volta).

È esperienza comune quella di assaporare una sensazione di particolare piacevolezza una volta che sono finite le angustie di una malattia, di un periodo faticoso dal punto di vista lavorativo o particolarmente drammatico per casi che ci sono occorsi. Trascorsi mesi di studio per un esame, una volta superato, siamo invasi da una sensazione  di piacere che non deriva solo dall’aver compiuto un passo verso la realizzazione del nostro obiettivo, ma dall’aver superato momenti in cui magari si è faticato e si son sostenuti sacrifici. Dopo una malattia, dopo giorni o settimane a letto senza aver la possibilità di muoversi o compiere altre attività, si gode dell’avvenuta guarigione e della ripresa delle normali attività che magari prima si deprezzavano perché si era ormai adusi ad esse. I casi e le circostanze che ci possono occorrere sono tanti.

Questa situazione di recuperata «gioia di vivere» che si assapora dopo una circostanza drammatica viene da Leopardi descritta con l’espressione «piacere figlio d’affanno» ne «La quiete dopo la tempesta», in cui il Poeta rappresenta la ripresa della vita nel paese, dopo la paura per il temporale, con una gioia che deriva dall’aver visto la morte in faccia. Prima di apprezzare la poesia, sentiamo quanto Leopardi scrive sullo stesso tema in un pensiero dello Zibaldone datato 7 agosto 1822: «La continuità de’ piaceri (benché fra loro diversissimi) o di cose poco differenti dai piaceri, anch’essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere. E siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de’ piaceri (qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua, essendo nemica e distruttiva del piacere […].  Ecco come i mali vengono ad essere necessarii alla stessa felicità, e pigliano vera e reale essenza di beni nell’ordine generale della natura […]. E ciò non solo perch’essi mali danno risalto ai beni, e perché più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perché senza essi mali, i beni non sarebbero neppur beni a poco andare, venendo a noia, e non essendo gustati né sentiti come beni e piaceri, e non potendo la sensazione del piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungo tempo». Quando sette anni dopo, nel settembre 1829, Leopardi compone «La quiete dopo la tempesta», la necessità dei mali per provare un momento di piacere sarà per il Poeta un’ulteriore riprova dell’assurdità della condizione umana. Ecco l’incipit: «Passata è la tempesta:/ Odo augelli far festa, e la gallina,/ Tornata in su la via,/ Che ripete il suo verso. Ecco il sereno/ Rompe là da ponente, alla montagna;/ Sgombrasi la campagna,/ E chiaro nella valle il fiume appare./ Ogni cor si rallegra, in ogni lato/ Risorge il romorio/ Torna il lavoro usato». Mirabile è la descrizione delle attività che riprendono in paese, le figure dell’artigiano che si affaccia all’uscio, della «femminetta» che esce a cogliere l’acqua della recente pioggia e dell’«erbaiuol» che «rinnova/ Di sentiero in sentiero/ Il grido giornaliero». Il sole si antropomorfizza sorridendo agli uomini, compartecipe di questa ripresa di vita, di questa allegria dei cuori. «Sì  dolce, sì gradita/ Quand’è, com’or, la vita?/ Quando con tanto amore/ L’uomo a’ suoi studi intende?/ O torna all’opre? o cosa nova imprende?/ Quando de’ mali  suoi men si ricorda?/ Piacer figlio d’affanno;/ Gioia vana, ch’è frutto/ Del passato timore, onde si scosse/ E paventò la morte/ Chi la vita abborria». Non che Leopardi disprezzi questo godimento del piacere, ma la sua ragionevolezza che ricerca le ragioni di tutto e soprattutto vuol dar ragione di quanto vive, prova, pensa e crede, si rende conto che questa presupposta felicità è un inganno, perché «uscir di pena/ È diletto tra noi»; l’uomo anela a vette e mete ben più alte. Non può in questo consistere la felicità umana. Emerge, qui, quell’uso della ragione non illuministico di un Leopardi illuminista (che, però, non ripudia mai l’uso della ragione secondo la sua vera natura) che arriverà a chiedersi le ragioni delle «magnifiche sorti e progressive», a domandarsi la consistenza dell’ottimismo dei contemporanei.

Anche nell’operetta morale «La storia del genere umano» il Recanatese ci mostra come gli affanni, le fatiche, la paura stessa della morte ci rendano più apprezzabile la vita: quando finiscono, proviamo per un certo tempo un’impressione strana di piacevolezza, non una felicità vera, ma un diletto che proviene dalla cessazione del dolore. Ecco perché è così comune tra gli uomini un certo senso di compiacimento al pensiero delle passate sofferenze o ancora non è raro che qualcuno percepisca un senso di sadico, ma sottaciuto, piacere nel sentire  le altrui sventure (che deriva dal fatto che queste sofferenze o tragedie non ci hanno toccato e, quindi, abbiamo scampato il pericolo). In questo testo Leopardi racconta la storia dell’umanità sotto forma mitologica. A un certo punto scrive: «Ma Giove fatto accorto, per le cose passate, della propria natura degli uomini, e che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato l’impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da se medesimi, quanto meno sono afflitti dagli altri mali; deliberò valersi di nuove arti a conservare questo misero genere: le quali furono principalmente due. L’una mescere la loro vita di mali veri; l’altra implicarla in mille negozi e fatiche, ad effetto d’intrattenere gli uomini, e divertirli quanto più si potesse dal conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana felicità. Quindi primieramente diffuse tra loro una varia moltitudine di morbi e un infinito piacere di altre sventure: parte volendo, col variare le condizioni e le fortune della vita mortale, ovviare alla sazietà e crescere colla opposizione dei mali il pregio de’ beni; parte acciocché il difetto dei godimenti riuscisse agli spiriti esercitati in cose peggiori, molto più comportabile che non aveva fatto per lo passato».

I mali, le sventure, le paure e i pericoli ci sono stati dati perché l’uomo potesse, poi, apprezzare la vita, la salute, le piccole soddisfazioni quotidiane. In realtà, c’è in questo pensiero una profonda verità: la presenza del male e del peccato ci fa apprezzare il bene, il fastidio del buio e dell’ombra ci permette di valorizzare di più la luce, l’esperienza della malattia ci permette di essere grati della salute. Ovvero, se concordiamo con Leopardi, che la felicità vera non può “essere figlia d’affanno”, ossia essa non può essere partorita dalla cessazione del dolore, al contempo non possiamo non sorprenderci di come anche accadimenti drammatici o aspetti della vita, almeno ad un primo esame, negativi, in una prospettiva di speranza e nel tempo, possano in maniera dialettica condurci al bene.