PARADISO/14

Giustizia degli uomini e misericordia di Dio

Se nel quinto Cielo prevaleva l’immagine della croce, simbolo della redenzione, nel sesto cielo di Giove si staglia l’immagine dell’aquila, segno dell’Impero: all’Impero la provvidenza di Dio ha affidato l’ordine universale. Dal cielo di Giove deriva la giustizia umana che l’Impero ha il compito di mantenere nel mondo.

Culture 23_08_2015
L aquila del sesto cielo

Nel sesto cielo di Giove alcune anime si dispongono di fronte a Dante creando la scritta Diligite iustitiam, qui iudicatis terram ovvero «amate la giustizia voi che giudicate la terra». Altre scendono e si fermano in prossimità della lettera M formando la figura di un’aquila, chiaro simbolo dell’Impero. Se nel quinto Cielo prevaleva l’immagine della croce, simbolo della redenzione, ora si staglia l’immagine dell’aquila, segno dell’Impero: alla redenzione e all’Impero la provvidenza di Dio ha affidato l’ordine universale.

Dal cielo di Giove deriva la giustizia umana che l’Impero ha il compito di mantenere nel mondo. Dopo aver pregato perché la cupidigia, causa di tanti mali, si allontani dal mondo, Dante inveisce contro coloro che danno il cattivo esempio, in particolar modo papa Giovanni XXII, che comminava con facilità scomuniche per ragioni politiche. Non è la prima volta, come sappiamo, che Dante apostrofa con cattive parole i pontefici che hanno dato scandalo e che si sono comportati non come Servi Servorum Dei, bensì come cattivi amministratori della vigna del Padre.

Tutti ricorderanno la bolgia dei simoniaci (Inferno XIX) in cui il Fiorentino era riuscito a condannare ben tre papi, Niccolò III, Bonifacio VIII e Clemente V (gli ultimi due addirittura prima della morte). L’ira di Dante nei confronti dei pontefici che hanno scandalizzato, invece di accompagnare il gregge del buon Pastore nel cammino della fede, lungi dallo smorzarsi nella terza cantica, diventa ancor più aspra e accanita. 

Il poeta si sente exul immeritus, vittima dell’ingiustizia, condannato a morte in contumacia per baratteria, pur se innocente. Dante è cosciente che la giustizia umana non basta all’uomo, perché spesso lo condanna senza preoccuparsi di capirne il cuore, si lascia andare ad un’accusa dell’individuo senza limitarsi ad evidenziarne il peccato. La misericordia di Dio è, invece, oltre ogni umana misura e giustizia, non premiando chiunque, bensì chi con contrizione e verità di cuore riconosca il mistero buono e si affidi a Lui con tutta la propria fragilità. Nonostante questo, il poeta è anche conscio che occorra in Terra un garante della giustizia per tutti, non solo per i potenti e i ricchi. Questo garante è nella sua visione il sovrano.

L’aquila, formata dalle anime, chiarisce che nessuno che non abbia creduto in Cristo venturo o venuto salirà al Paradiso, anche se è pur vero che molti che gridano «Signore, Signore!» saranno meno vicini a Lui di tanti che non l’hanno conosciuto. Anche i re della cristianità in carica nel 1300 non operano secondo giustizia: Alberto d’Asburgo, Filippo IV il Bello, Ferdinando IV di Castiglia, Carlo II d’Angiò,  Federico II d’Aragona, re di Sicilia, e poi ancora i re di Scozia, di Inghilterra, di Portogallo, di Norvegia, di Serbia.

Nell’occhio dell’aquila sono collocate le anime più degne: Davide (re giusto, salmista, capostipite della progenie da cui nasce Maria), Traiano (imperatore romano che consola «la vedovella […] del figlio»), Ezechia (re di Giuda), Costantino (imperatore che trasferisce la sede dell’impero da Roma a Bisanzio), Guglielmo II d’Altavilla denominato il Buono (cugino di Federico II), Rifeo (eroe troiano).

Dante si sorprende nel sentir nominare due anime pagane nel Cielo di Giove, laddove l’aquila aveva appena dichiarato che nessuno che non creda in Cristo possa salire in Paradiso. Dante non comprende come Traiano e Rifeo possano essere in Cielo. L’aquila spiega: «Regnum caelorum violenza pate/ da caldo amore e da viva speranza,/ che vince la divina volontate: non a guisa che l’omo a l’om sobranza,/ ma vince lei perché vuole essere vinta,/ e, vinta, vince con la sua beninanza». In parafrasi: «Il regno dei Cieli accetta di subire violenza dall’ardore di carità e dalla viva speranza: la violenza ha la meglio sulla volontà di Dio, ma non come un uomo che mette sotto un altro, ma perché la volontà di Dio si compiace di essere vinta e, dandosi per vinta, vince con la sua benevolenza».

In pratica, l’amore e la preghiera dei credenti possono ottenere la salvezza e la conversione dei non credenti. Nella vicenda di Traiano Dante si rifà alla Sancti G. M. vita scritta da Giovanni Diacono: ivi si racconta che Gregorio Magno pregò per la resurrezione di Traiano e perché, una volta tornato in vita, si volgesse al bene. Non ci addentriamo qui sull’ammissibilità in via di dottrina della storia raccontata da Giovanni Diacono: per chi fosse interessato rimandiamo a quanto scrive san Tommaso nella Summa Theologiae (libro III, capitolo LXXI, 5). Basterà qui sottolineare da un lato la capacità che la preghiera ha di piegare la volontà di Dio e dall’altro il fatto che la ragione umana non riesce a comprendere la profondità del mistero divino, come Dante aveva già ricordato nel Purgatorio: «Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrere l’infinita via che tiene una sustanza in tre persone».

Per quanto riguarda Rifeo, eroe troiano, mai citato nei testi teologici, basterà ricordare che nell’Eneide viene definito il più giusto dei Troiani e ossequiente alla legge. Per questa ragione l’aquila racconta che Dio per grazia gli svelò la nostra redenzione futura, cosicché Rifeo disprezzò «il puzzo […] del paganesmo» e fu tenuto a battesimo da fede, speranza e carità, mille anni prima che fosse istituito il sacramento del battesimo. Perché proprio Rifeo e non altri? L’aquila ci mette in guardia dal tentare di comprendere e giudicare tutto: «E voi, mortali, tenetevi stretti/ a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,/ non conosciamo ancor tutti li eletti». Ovvero: «Voi uomini, tenetevi lontani dal giudicare, perché anche noi che vediamo Dio, non conosciamo ancora tutte le anime salve». Di nuovo un ammonimento a confidare nella misericordia di Dio e nella potenza della preghiera, ma a diffidare di una ragione umana che pretenda di addentrarsi e di comprendere l’infinito mistero di Dio.