INTERVISTA

«Vi spiego come funziona la fabbrica dei transgender»

La somministrazione del farmaco blocca-pubertà in casi circoscritti è una pura illusione, basta vedere come funzionano i centri per la riassegnazione sessuale. Lo racconta a La Nuova BQ il padre di un ragazzo transgender, che ha toccato con mano la realtà dell'ospedale Niguarda: parlano di "sbarramento", di colloqui approfonditi con psichiatri e psicologi, ma «a mio figlio hanno iniziato il trattamento di ormoni già alla seconda seduta con lo psicologo, e malgrado il parere negativo di altri medici». Tutto il sistema è orientato a favorire la transizione di genere. E ora si punta ai bambini, iniziando con la triptorelina, perché su di loro la transizione è più efficace.
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Life and Bioethics 21_03_2019

«Somministrazioni di triptorelina in casi molto circoscritti, con prudenza, caso per caso? In realtà non funziona così. Anche per le cosiddette transizioni di genere parlano di sbarramento, colloqui con psicologi, psichiatri, sanitari, ma l’esperienza dice altro: dal primo momento ti si rivolgono con il genere desiderato e dopo poco partono con gli ormoni». A parlare così è Antonio (nome di fantasia per tutelare la privacy), padre di un ragazzo che ha deciso di diventare donna affidandosi al centro che opera presso l’ospedale Niguarda di Milano. Ed è proprio lì che ha potuto vedere la facilità e la leggerezza con cui si iniziano i trattamenti ormonali per il cambiamento di genere.

E quando ha visto le dichiarazioni della bioeticista Laura Palazzani rilanciate da Vatican News, che giustificava l’uso del farmaco blocca pubertà su bambini dodicenni, ci ha contattato per dirci tutta la sua indignazione. Già «è mostruoso» questo trattamento fatto sui bambini, ma a questo si aggiunge la «menzogna» dei casi estremi: «Voglio sperare che la Palazzani sia in buona fede, che non sappia davvero come funzionano questi centri, l’unico “aiuto” che si dà è quello mirato a cambiare genere, qualora non vi sia la presenza di anomalie psichiatriche di diverso tipo».
  
E il discorso si allarga, perché tutti i componenti cattolici del Comitato Nazionale di Bioetica, ad esclusione di Assuntina Morresi, hanno dato parere favorevole all’inserimento della triptorelina tra i farmaci erogati dal Servizio Sanitario Nazionale, ovviamente «in casi molto circoscritti»: «Si gioca con il termine sofferenza. Certo che c’è molta sofferenza, seguendo mio figlio ho incontrato tante persone nel cammino di transizione e ho potuto toccare con mano la grande sofferenza che ognuno di loro si porta dentro. Ed è vero che ci vuole accoglienza e misericordia, ma questo non significa ridurle a dire ciò che l’altra persona vorrebbe sentire».

Antonio non ha mai lasciato suo figlio a se stesso, lui e sua moglie lo hanno sempre accompagnato nelle fasi drammatiche della sua vita, senza però rinunciare mai alla verità. «Certo, quando ci vediamo questo non è il tema centrale dei nostri discorsi – dice Antonio - lui sa benissimo come la pensiamo e, insieme ai familiari più stretti, siamo gli unici che lo chiamano al maschile, perché pensiamo sia bene per lui non perdere il contatto con la sua storia e la sua origine. Speriamo sempre in Dio, speriamo che il consolidamento di sé possa portarlo a realizzare pienamente la sua persona, rinunciando possibilmente alla transizione». Anche perché, quel pesante trattamento ormonale, per il loro figlio può essere «una bomba ad orologeria»; e cita uno studio svedese che dimostra come a dieci anni dalla riassegnazione di genere la curva della mortalità delle persone transgender abbia un’impennata: suicidi, insufficienza renale, malattie cardio-vascolari, sono le cause di una mortalità così alta.

Eppure, e qui torniamo all’esperienza diretta di Antonio, «la transizione di genere viene proposta come fosse una cosa normale, addirittura una scelta avanzata». Al Niguarda se ne occupa il Centro Studi e trattamento per i disturbi della fertilità, diretto dal professor Maurizio Bini. Antonio mi mostra una copia del quotidiano Avvenire del 14 dicembre 2017, un’inchiesta intitolata «Un giorno con i transgender al Centro di Niguarda, tra dolore e illusioni», un servizio di Avvenire che, all’insegna della sofferenza e dei casi limite, sdogana di fatto un approccio in contrasto con la morale cattolica. L’articolo di Avvenire parla di «sbarramento», «costituito dalle visite psichiatriche e psicologiche preliminari che devono accertare le motivazioni per le quali ci si mette sulla strada della 'transizione'».

«Non corrisponde al reale – dice Antonio, in cui affiora di nuovo il disappunto per questa non corretta informazione - in verità dicono che ci sono 5 incontri preliminari, dopodiché si decide se passare al trattamento ormonale. Ebbene, a mio figlio hanno iniziato il trattamento ormonale già al secondo incontro con lo psicologo, nonostante pareri contrari da parte di altri medici. Nessuno indaga sulle ragioni che portano queste persone a desiderare di cambiare aspetto, nessuno propone un percorso alternativo». Il Niguarda non è un caso isolato: «Mi è stato riferito che in un altro centro il trattamento ormonale è stato iniziato già alla prima seduta».

Ma l’articolo dedicato al centro del professor Bini è importante soprattutto per quello che non dice: «Ad esempio non c’è alcun report di medio-lungo termine sugli esiti della terapia; lo abbiamo chiesto, ci hanno anche trattato male». Tutto sembra davvero organizzato per favorire la transizione di genere: i ragazzi che iniziano questo percorso, dal Niguarda vengono indirizzati anche allo Sportello Trans gestito dall’associazione ALA Milano Onlus, dove «c’è un gruppo di auto-aiuto guidato da due transgender. Ho partecipato diverse volte a questi incontri – prosegue Antonio – e posso dire che questi ragazzi hanno paura di farsi male con questi trattamenti, ma lì trovano incoraggiamento. Per questo motivo, in generale, c’è un’alta percentuale che evade la transizione e risolve in altro il proprio problema, ma non lo dicono. Mostrano soltanto quelli che “ce l’hanno fatta” per incoraggiare i nuovi, non vengono mai ascoltate le ragioni di chi si è fermato».
Pare proprio che sia tutto il sistema a essere orientato a questa scelta: «A chi rinuncia alla terapia di transizione non viene più offerto alcun sostegno psicologico».

Ora puntano diritti sui più giovani: «Certo, i bambini sono maggiormente influenzabili – annota Antonio - e la triptorelina si presenta come un trattamento più soft della trasformazione stessa. È chiaro l’obiettivo di queste transizioni: più si è adulti, più è difficile acquisire una riuscita trasformazione nell’aspetto di genere, un maschio somiglierà meno a una femmina e viceversa. Quando si è così giovani invece e si blocca la pubertà, la “transizione di genere” diventa più efficace». E si fa leva sui casi limite (ma sono tutti casi limite! E, paradosso, la stessa disforia di genere non è più considerata un disturbo mentale dall'OMS), appellandosi alla compassione per la sofferenza che di fatto non è vera compassione: «Quanto dichiarato dalla Palazzani e da altri risulta veramente umiliante per chi conosca la realtà».