INTERVISTA

«Solo riconoscere che è in atto un genocidio potrà aiutare i cristiani a restare in Iraq e in Siria»

Padre Rebwar Basa, sacerdote iracheno, guida alla mostra ospitata dal Meeting di Rimini sulla persecuzione dei cristiani, racconta la drammatica situazione dei cristiani in Iraq.

- COSA RACCONTANO I NUMERI DELLA GUERRA IN SIRIA, di G. Gaiani

- MEETING, ORA SPUNTA LA MADONNA NELLO ZAINO

Religious Freedom 22_08_2016
Padre Rebwar Basa

«Occorre che la comunità internazionale riconosca il genocidio compiuto nei confronti dei cristiani e delle altre minoranze religiose dallo Stato Islamico: questo sarebbe un vero aiuto per noi, la comunità internazionale si muoverebbe di più per tutelare la libertà dei cristiani e anche per ristabilire la giustizia e la pace»: da Rimini leva un forte appello padre Rebwar Basa, sacerdote iracheno originario di Erbil, 38 anni, dell’ordine antoniano di S. Ormisda dei Caldei. Lo abbiamo incontrato al Meeting, dopo una delle sue visite guidate alla commovente mostra sulla persecuzione anticristiana, curata da Aiuto alla Chiesa che Soffre (padiglione C5).

Qual è oggi la situazione dei cristiani perseguitati nel Medio Oriente?
Io vengo dall’Iraq, purtroppo negli ultimi 30-40 anni l’Iraq è stato in guerra, nella mia vita non ho mai visto un periodo in cui il paese fosse in pace. Quando la guerra diventa più pericolosa e aggressiva, questo si riflette soprattutto sulla gente più povera, loro sono le vittime. Figuriamoci le minoranze, cristiane ed altre, che si trovano in Iraq: i cristiani prima dell’ultima guerra del 2003 erano più di un milione, oggi sono rimasti massimo 300mila, di cui la metà sono sfollati. E anche gli altri vivono in una situazione precaria: non c’è la libertà religiosa, di vestirsi, di parlare e di tante altre cose. Soffrono anche dello stato generale di guerra.

Vescovi e patriarchi dell’Iraq invitano però a rimanere: come si può aiutare i cristiani in queste antiche terre di cristianesimo?
Sarebbe una grande perdita se non ci fossero più i cristiani in Iraq. I nostri fratelli ebrei sono stati cacciati, e quando sono usciti dall’Iraq hanno detto: oggi tocca al sabato, domani toccherà alla domenica… Purtroppo questo è successo, i cristiani sono rimasti pochi. Se non si trova una soluzione per tutto il paese e non viene garantita la sicurezza per la libertà dei cristiani e i loro diritti, penso purtroppo che prima o poi finirà questa presenza. Un passo fondamentale è riconoscere il genocidio fatto nei confronti dei cristiani e delle altre minoranze religiose, da parte dello Stato Islamico. Questo ci aiuterebbe tanto, perché la comunità internazionale si muoverebbe di più per tutelare la libertà dei cristiani e anche per ristabilire la giustizia e la pace. Questo è un obiettivo importante.

Cosa significano i cristiani per l'Iraq?
Come dicevo, sarebbe una grossa perdita se un giorno i cristiani non ci fossero più in Iraq: i cristiani iracheni sono una ricchezza per l’Iraq stesso: la maggior parte sono medici, ingegneri e così via, da sempre. Un altro ruolo importante è nel mantenere un equilibrio nella convivenza: se la maggioranza è musulmana e ci sono cristiani con i loro diritti, sarebbe una presenza importante contro il radicalismo. Storicamente i cristiani hanno avuto un ruolo di ponte fra le diverse culture: lingua e religione sono diverse da quella musulmana, quindi ad esempio nei primi secoli i cristiani hanno tradotto oltre la Bibbia anche altri libri della cultura greca in aramaico, e poi dall’aramaico all’arabo. Così la filosofia è passata al mondo arabo grazie al contributo dei cristiani in Iraq e in quelle zone. Oggi i cristiani hanno lo stesso ruolo: da un lato vivono con i musulmani in Iraq, conoscono la loro mentalità, religione, tradizione. E dall’altra parte si sentono anche parte dell’Occidente perché hanno le stesse radici, fanno parte della stessa Chiesa cattolica, romana e universale. E’ una presenza importante anche per trovare l’equilibrio fra Oriente e Occidente, oggi mancante. Devo essere sincero, in Europa ci sono ignoranti della religione musulmana, e dall’altra parte i musulmani sono ignoranti della cultura e della religione cristiana. Invece i cristiani del Medio Oriente conoscono abbastanza queste due realtà e quindi possono avere il ruolo del dialogo. I cristiani possono essere una soluzione, non un problema.

Uno degli effetti del genocidio è avere accomunato la sorte dei cristiani nella piana di Ninive e nella Siria.
Quando lo Stato Islamico ha preso la città di Ninive ed altre di maggioranza sunnita, è stato pubblicato un video dove si cancellavano i confini fra Iraq e Siria: hanno chiamato tutto il territorio dominato da loro come Stato Islamico. Da questo punto di vista la situazione dei cristiani in Siria non è molto differente da quella in Iraq. Anche lì hanno rapito più di 300 cristiani che parlano in aramaico e sono nostri fratelli, alcuni sono stati obbligati a convertirsi all’islam. Altri sono stati uccisi, altri liberati dietro riscatto. Anche lì ci sono crimini contro l’umanità. Tornando alla situazione che conosco direttamehte, a Mosul e alla piana di Ninive: circa 150mila cristiani sono stati obbligati a lasciare le loro case e le loro terre; sono stati maltrattati, hanno perso la loro dignità solo per la loro identità. Se torniamo alla definizione di genocidio, non è forse questo? Le nostre case non sono più nostre, le nostre chiese sono trasformate in moschee o profanate, nelle altre si fanno abusi; stanno distruggendo la nostra cultura e i nostri monumenti, bruciano i nostri manoscritti; da un milione la presenza dei cristiani è arrivata a 300mila persone: tutto questo non si deve definire un genocidio? Le vittime fra vescovi, sacerdoti, seminaristi, cristiani normali uccisi dal 2003 fino ad oggi, sono migliaia: tutto questo non è genocidio? Allora forse bisognerà cambiare la definizione e dire: quando un popolo viene attaccato con una bomba atomica e non rimane più nessuno, questo è genocidio. In quel momento, ci faranno un monumento, ma questo non ci interesserà più.

In Europa negli ultimi giorni si discute del burqa e dei burkini. Lei come vede il dibattito sui divieti che vorrebbero imporre Francia e Germania?
In linguaggio metaforico, a noi serve adesso di togliere il burkini, cioè aprire i nostri cuori, le nostre intenzioni, cioè se veramente rispettiamo gli altri nei loro diritti, se rispettiamo la libertà o il contrario. Qui si discute dei burkini, ma perché vengono ignorati i diritti delle minoranze nei paesi musulmani? L’Arabia Saudita dice che la Francia non deve mettere questi divieti: ma in quel paese, punto di riferimento per tutto il mondo musulmano, hanno dato la libertà alle donne musulmane di vestire come vogliono? O c’è la polizia che controlla come si vestono? Non parliamo poi della situazione dei cristiani in Iraq, che non sono rifugiati, sono popoli originari, i musulmani sono venuti nel settimo secolo, e adesso i cristiani sono minoranza: vedete come vivono in libertà e democrazia, sotto le tende, nelle baracche, cacciati dalle loro case… Evviva la libertà! A Baghdad pubblicavano l’immagine della Madonna con il velo e dicevano alle donne cristiane: anche voi dovete mettere il velo come la Madonna. Ma chiedo ai musulmani, se sono così bravi a conoscere la nostra storia, di farci il favore di portarci l’immagine originaria della Madonna che metteva il velo. Ma il punto non è come si veste la donna. Il problema va valutato all’interno del cuore, delle intenzioni, come guardiamo noi a una donna. Anche se una donna è tutta coperta, se noi abbiamo un’intenzione sporca la vediamo come vogliamo. Invece se abbiamo gli occhi puri e l’intenzione è pulita, la guardiamo come una nostra sorella. Questo ci insegna il Vangelo: non dice che le donne devono essere coperte, ma dice: se il tuo occhio pecca, devi fare una purificazione interna. Gesù stesso, quando gli hanno portato la donna che aveva peccato, ha detto: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Solo lui la poteva scagliare, ma ha detto: neanche io ti condanno, però non fare più questi peccati. Questo è l’invito: togliere questi burkini! Tra diverse civiltà dobbiamo essere sinceri, non parlare di dialogo, libertà e diritti umani, e invece di nascosto creare conflitti e appoggiare questi radicalisti! Questi poveri giovani, fra i membri dell’Isis, anche loro sono vittime di questa ideologia. Chi gli dà un insegnamento sbagliato, di odio anziché rispetto verso l’altro, è il vero terrorista. Il vero problema secondo me non è dei vestiti ma dei cuori.