San Giovanni XXIII, un Magistero dimenticato
Quella di manipolare i Papi è un'abitudine antica e dura a morire. Di San Giovanni XXIII si è data un'immagine di Papa rivoluzionario, progressista e pacifista. Ma le sue encicliche contengono una coerente difesa del diritto naturale, dell'ordine naturale e l'invito a un rinnovamento spirituale al cui centro sta l'invito alla recita del santo Rosario.
Il 29 dicembre 1958 San Giovanni XXIII (1881-1963), due mesi dopo essere stato eletto Papa, visita i detenuti nel carcere di Regina Coeli. Esiste già la televisione, che trasmette e registra tutto. Sorprendendo i carcerati, il Papa bergamasco inizia raccontando che non è la prima volta che si trova in una prigione. Suo zio, cacciatore di frodo, era stato arrestato quando il futuro Pontefice era un ragazzino, e la famiglia, compreso il piccolo Angelo, lo andava a trovare.
Oggi tutto questo può sembrare normale, ma, all'epoca, le immagini trasmesse dalla RAI di Papa Roncalli a Regina Coeli, vestito con una semplice talare bianca e che racconta come venga da una famiglia dove non è mancato un detenuto, creano un'enorme impressione per il contrasto con il venerabile Pio XII (1876-1958), lo ieratico e distante principe Pacelli. Quando qualche giorno fa la televisione italiana ha trasmesso di nuovo il suo storico servizio del 1958, ai telespettatori avvertiti è apparso chiaro come la differenza di stile fra Papa Francesco e Benedetto XVI non sia una novità assoluta nella storia della Chiesa. Il contrasto fra San Giovanni XXIII e il suo predecessore fu, semmai, ancora più marcato e inatteso.
E tuttavia proprio Benedetto XVI ricorda nella Caritas in veritate come il criterio ermeneutico della «riforma nella continuità» non serva solo a interpretare i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II ma tutto il Magistero e tutti i Papi. Non esiste una semplice ermeneutica della continuità, quasi che Benedetto XVI propugni una continuità senza riforma. Nella Chiesa ci sono spesso riforme, talora radicali. Benedetto XVI invita ad accettarle con lealtà, ma a collocarle nella continuità del'«unico soggetto Chiesa», interpretando ogni documento del Magistero alla luce sia dei testi precedenti sia di quelli successivi. Lo stesso Benedetto XVI applica questa ermeneutica proprio alla dottrina sociale di San Giovanni XXIII, quando il 16 maggio 2011 celebra il cinquantenario della fondamentale enciclica di Papa Roncalli Mater et magistra (1961).
In quell'enciclica il santo Pontefice definisce la dottrina sociale «parte integrante della concezione cristiana della vita», e nello stesso tempo la applica ai nuovi squilibri economici nazionali e internazionali. Ma questi squilibri, insegna l'enciclica, non possono trovare soluzioni meramente tecniche. Così ne riassume l'insegnamento Benedetto XVI: «A fronte di questi squilibri c’è bisogno del ripristino di una ragione integrale che faccia rinascere il pensiero e l’etica. Senza un pensiero morale che superi l’impostazione delle etiche secolari, come quelle neoutilitaristiche e neocontrattualiste, che si fondano su un sostanziale scetticismo e su una visione prevalentemente immanentista della storia, diviene arduo per l’uomo d’oggi accedere alla conoscenza del vero bene umano». Se la ragione sia determinata dal vero oppure soltanto dall’utile, insegna San Giovanni XXIII, rimane la questione di fondo per impostare anche i problemi dell’economia e della giustizia.
Non sul mero utile, ma sulla verità e sul diritto naturale - è ancora Benedetto XVI a riassumere - Papa Roncalli vuole fondare la giustizia sociale anche internazionale: «Con riferimento alla fondazione di tale giustizia va sottolineato che non è possibile realizzarla poggiandosi sul mero consenso sociale, senza riconoscere che questo, per essere duraturo, deve essere radicato nel bene umano universale».
Il carattere oggettivo del bene comune universale è al centro dell'altra grande enciclica di San Giovanni XXIII, anche questa spesso richiamata e commentata da Benedetto XVI e, più recentemente da Papa Francesco: Pacem in terris, del 1963. Di questa enciclica si ricorda quasi solo il titolo, trasformato a torto in una specie di santino pacifista, mentre il suo cuore è costituito dalla nozione dell'ordine naturale. Papa Roncalli ricorda che la pace «può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine stabilito da Dio». Mentre i progressi della scienza rivelano sempre di più il mirabile ordine dell'universo, il disordine con «stridente contrasto» «regna tra gli esseri umani e tra i popoli». La Chiesa, sulla base delle leggi iscritte da Dio nella natura umana, ricorda il nesso strettissimo fra pace e ordine, cioè fra pace e diritto naturale.
Nella promozione del diritto naturale, insegna l'enciclica, i cattolici potranno collaborare con i cristiani separati dalla Sede Apostolica e talora anche «con esseri umani non illuminati dalla fede in Gesù Cristo, nei quali però è presente la luce della ragione ed è pure presente e operante l'onestà naturale». San Giovanni XXIII enuncia qui la distinzione tra l'errore e l’errante e fra le dottrine filosofiche e i movimenti che le rappresentano. Questa distinzione è citata oggi con grandissima frequenza, spesso del tutto avulsa dal complessivo contesto della Pacem in terris e non sempre a proposito. Spesso anzi è totalmente fraintesa e ridotta al semplice richiamo a presunte esigenze di carità che dovrebbero attenuare se non eliminare, per amore verso l'errante, la stessa polemica nei confronti dell'errore. Nel contesto dell'enciclica la distinzione muove invece dalla chiara premessa secondo cui è obbligatorio «non venire mai a compromessi riguardo alla religione e alla morale». E la collaborazione per specifici fini di diritto naturale con «quanti non credono, o credono in modo non adeguato, perché aderiscono ad errori» - anche se riconoscono almeno la legge di natura - deve pure essere occasione di apostolato, in modo che gli «erranti» possano finalmente »scoprire la verità», anche in materia di religione, «e renderle omaggio».
Anche in questo caso, la manipolazione delle formule di San Giovanni XXIII ricorda il modo in cui i media oggi manipolano espressioni di Papa Francesco. E c'è anche un altro punto in comune. Una lettura superficiale trascura completamente per Papa Roncalli - come oggi per Papa Bergoglio - il cuore spirituale del Magistero, che non è una clausola retorica ma - come ricordava ancora Benedetto XVI a proposito di San Giovanni XXIII - la chiave di tutto. Non si può capire Papa Roncalli senza la sua spiritualità sacerdotale, fondata sull'altissima considerazione del sacerdozio, sulla povertà, la castità, l'obbedienza, la sana dottrina: i temi che sono al centro della splendida enciclica del 1959 Sacerdotii nostri primordia, scritta per il centenario della morte di San Giovanni Maria Vianney (1786-1959), il santo curato d'Ars.
E non si può capire il progetto di San Giovanni XXIII per la Chiesa e la società - che ispira il suo proposito di convocare il Concilio - senza fare riferimento a un testo importante e dimenticato che Papa Roncalli aveva presentato come l'indispensabile complemento, di carattere spirituale, dell'enciclica Mater et magistra: la lettera apostolica Il religioso convegno del 1961.
Per realizzare il grande progetto di restaurazione sociale indicato nella Mater et magistra è necessario, spiega San Giovanni XXIII, anzitutto, un rinnovamento spirituale al cui centro sta «l'invito al mondo cristiano alla recita del santo Rosario». Del resto la Mater et magistra era stata pubblicata in occasione del settantesimo anniversario della Rerum novarum: e già Leone XIII (1810-1903) in tutta una serie di documenti, aveva collegato il rinnovamento sociale alla diffusione del Rosario. Sul tema del Rosario lo stesso San Giovanni XXIII era già intervenuto nel 1959 con l'enciclica Grata recordatio e nel 1960 con la lettera L'Ottobre che ci sta innanzi. La lettera apostolica del 1961 Il religioso convegno presenta il Rosario nella sua dimensione di preghiera pubblica e sociale, «espressione vivente della comune appartenenza al corpo mistico di Cristo».
Certo, non è sbagliato recitare il Rosario per le proprie intenzioni individuali: ma in un momento in cui ci si trova di fronte alle «asprezze, le avversità e le tempeste di un disordine sociale che sovente si volge in minaccia paurosa» il Rosario diventa la «grande preghiera pubblica ed universale» della Cristianità, per la «preservazione da minacciate sventure, a ripresa di prosperità e di ordine sociale». Sono pensieri sul Rosario che non sono passati di attualità e che sono stati ripresi a Santa Maria Maggiore, il 4 maggio 2013, da Papa Francesco, un Pontefice per tanti versi simile a San Giovanni XXIII. Simile al vero Papa Roncalli, non all'immagine dolciastra e tendenziosa diffusa da un certo progressismo cattolico e laico. Ma quella di manipolare i Papi è un'abitudine insieme antica e dura a morire.