APPUNTI PER LA MATURITÀ/7

Saba, la ricerca e l’approdo al porto della fede

La ricerca delle proprie origini, lo scavo nel proprio passato infantile e adolescenziale, il desiderio di appartenere, l’approdo ad una terra alla fine del viaggio caratterizzano tanta della produzione di Saba. Nell’umanità che incontra, scopre la presenza dell’Infinito e del Signore Gesù, a cui si converte negli ultimi anni di vita terrena.
L’ESERCITAZIONE

Culture 03_05_2020

Letterato assai distante dal poeta vate ottocentesco e dall’umanista formatosi con un percorso classico e universitario, autodidatta, educatosi da solo sui testi della tradizione italiana (da Petrarca a Leopardi) e tedesca (su tutti il poeta romantico Heine, da cui mutua il termine «Canzoniere» della raccolta poetica che raccoglie tutte le altre sillogi), Umberto Saba (1883-1957) mostra fin da subito un chiaro anti-dannunzianesimo, ben espresso nell’articolo «Quello che resta da fare ai poeti» (1912).

Ai poeti non resta da fare che «poesia onesta», come quella di Manzoni. Nei versi del poeta lombardo traspare «la costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda alla sua visione», mentre D’Annunzio sembra quasi voler circuire il lettore ingigantendo in maniera ipertrofica il proprio io e le proprie esperienze. Dovere del poeta onesto è non forzare mai l’ispirazione volendo farla apparire più grande di quella che essa in realtà è.

Da qui scaturisce il carattere autobiografico, quasi diaristico, del suo Canzoniere, in maniera simile alla Vita di un uomo di Ungaretti. Da qui proviene anche il valore terapeutico della sua scrittura, in maniera analoga a quella di Svevo. Anche per questo motivo Saba non guarda mai con convinzione alle avanguardie storiche dei primi decenni del Novecento, che rompono con il passato letterario, ma cerca di riappropriarsi delle forme metriche della tradizione.

Saba vuole ritornare alla rima «fiore/amore, la più antica difficile del mondo», ama «parole trite che non uno/ osava […], la verità che giace al fondo,/ quasi un sogno obliato, che il dolore/ riscopre amica» (dalla poesia Amai). In questa sorta di testamento spirituale, il poeta, al contrario di molti suoi poeti contemporanei, afferma di amare la poesia semplice, di più facile accesso. Le parole più belle e più pregnanti sono anche quelle più abusate: Saba le vuole recuperare nel loro pieno significato. La parola poetica giace nella profondità dell’io, per questo il poeta deve come immergersi in profondità, in uno scavo interiore. La conquista della parola poetica è come il raggiungimento della verità, comporta una fatica e un dolore.

Nei versi di Saba, aulico e prosaico si mescolano in un impasto linguistico talvolta gradevole, altre volte stridente. L’andamento della sua poesia ha un carattere prosastico: alcune inversioni e la presenza dei versi definiscono la poeticità di un testo in cui anche la sintassi e il lessico sembrano talvolta più adatti alla narrativa che alla lirica. Per queste ragioni i giudizi critici sulla sua poesia furono i più diversi. Se Pasolini riteneva Saba «il più difficile dei poeti contemporanei», Aldo Palazzeschi lo considerava «il più semplice, il più puro».

La quotidianità riempie le pagine delle sue poesie, dalla figura della balia Gioseffa alla figlia, soprannominata Linuccia, al calcio (Goal) alla figura di una capra per cui prova compassione (La capra).

La ricerca delle proprie origini, lo scavo nel proprio passato infantile e adolescenziale, il desiderio di appartenere, l’approdo ad una terra alla fine del viaggio caratterizzano tanta della produzione di Saba. La sua vita era stata alquanto travagliata e ferita da traumi che lo colpirono da piccolo e in gioventù.

Nativo di Trieste, di madre ebrea (Rachele Cohen) e di padre italiano (Ugo Poli), Umberto scelse il nome di Saba forse per riecheggiare il termine ebraico del «pane» o forse per richiamarsi alla balia Gioseffa Schobar, che ebbe un ruolo molto importante nella sua vita. Quando il padre lasciò la famiglia, pochi mesi dopo il matrimonio, Saba crebbe nei primi tre anni allevato più dalle cure della balia che della madre, che lo riprese con sé solo quando il piccolo aveva appunto tre anni. A quindici anni anche Saba, come il padre, sentì il desiderio di viaggiare. Lasciò il ginnasio e si imbarcò come mozzo su una nave. Solo a vent’anni Saba conobbe il padre, presentatogli dalla madre sempre come un assassino, un uomo incapace di legarsi ad una donna e di assumersi responsabilità nei confronti di una famiglia.

Il sonetto Mio padre è stato per me come un assassino è un interessante documento poetico di questa esperienza autobiografica: Saba comprende che ha ricevuto dal papà il desiderio di libertà (lo sguardo azzurrino del volto) che ha nel cuore. L’incontro con il padre fu, forse, la prima tappa del percorso di ricerca di un’appartenenza che lui, poi, avrebbe identificato nel tempo con un’espressione che diede il titolo alla raccolta Trieste e una donna (1912).

Saba sentiva di appartenere alla moglie Carolina Wölfler, sposata nel 1908 con rito ebraico e più tardi con rito cattolico. Nella poesia Ed amai nuovamente Saba spiega:


Trieste è la città, la donna è Lina,

per cui scrissi il mio libro di più ardita

sincerità; […]

[…] per Lina vorrei di nuovo un’altra

vita, di nuovo vorrei cominciare.

Per l’altezze l’amai del suo dolore;


Saba è uno dei pochi poeti che scrive della moglie. Nella poesia ove ne esalta le virtù semplici, la paragona a «tutte/le femmine di tutti/i sereni animali/che avvicinano a Dio» e a «nessun’altra donna» (A mia moglie).

A Trieste Saba dedicò, poi, tante poesie che sarebbero divenute celeberrime. Trieste ha «una scontrosa/ grazia», «se piace,/ è come un ragazzaccio aspro e vorace,/ con gli occhi azzurri e mani troppo grandi/ per regalare un fiore,/ come un amore con gelosia» (Trieste). La commistione di narrazione, di descrizione e di riflessione caratterizza questa poesia, come pure Città vecchia dove il poeta racconta di aver preso una via della città vecchia e descrive il degrado dell’ambiente che è sfondo della miseria umana.

Il poeta è catturato dall’umanità che incontra, la

prostituta e marinaio, il vecchio

che bestemmia, la femmina che bega,

il dragone che siede alla bottega/

del friggitore,

la tumultuante giovane impazzita

d’amore.


Saba scopre in loro la presenza dell’Infinito e del Signore, v’intravede le sue stesse domande, i suoi bisogni, il suo desiderio di assoluto. Il suo pensiero si fa «più puro» quanto più bassa ed emarginata è quell’umanità non inquadrabile nel perbenismo benpensante e borghese.

La vita di Saba fu una continua ricerca mossa dall’ardore di conoscere, come il poeta racconta nell’Ulisse che conclude il gruppo Mediterranee scritto tra il 1945 e il 1946: «Nella mia giovinezza ho navigato/ lungo le coste dalmate». Molti hanno raggiunto il loro porto, hanno trovato il luogo in cui riposare o in cui credere. Così non fu per lui:

Oggi il mio regno

è quella terra di nessuno. Il porto

accende ad altri i suoi lumi; me al largo

sospinge ancora il non domato spirito,

e della vita il doloroso amore.


Il poeta non approdò ad alcun porto, ma continuò a navigare in una ricerca inesausta. Così, ancora nella poesia Ultima, appartenente a sei poesie della vecchiaia composte nel 1953 e nel 1954, Saba scrisse:

Variamente operai, se in male o in bene

io non so; lo sa Dio, forse nessuno.

Mai appartenni a qualcosa o a qualcuno.

Fui sempre («colpa tua» tu mi rispondi)

fui sempre un povero cane randagio.


Quel desiderio di appartenenza, sempre cercato e sempre, al contempo, sfuggito, non poteva trovare soluzione né in una donna (la moglie) né in una città (Trieste). Solo qualcosa di infinitamente più grande avrebbe potuto colmare la sua ansia di compimento e di pienezza. Forse, traccia di un approdo o di una rotta più chiara si ha nella conversione di Saba al cattolicesimo avvenuta negli ultimi anni di vita.

Nella poesia A Gesù Bambino Saba racconta l’approdo alla meta, dopo il lungo viaggio:

La notte è scesa

e brilla la cometa

che ha segnato il cammino.

Sono davanti a Te, Santo Bambino!


Tu, Re dell’universo,

ci hai insegnato

che tutte le creature sono uguali,

che le distingue solo la bontà,

tesoro immenso,

dato al povero e al ricco.


Gesù, fa’ ch’io sia buono,

che in cuore non abbia che dolcezza.

Fa’ che il tuo dono

s’accresca in me ogni giorno

e intorno lo diffonda,

nel Tuo nome.

Gesù, il Re dell’universo, è venuto a noi in dono. La sua presenza ci rende responsabili e missionari, come i primi apostoli.

L’ESERCITAZIONE: L'esaltazione della donna come moglie e madre