CANONIZZAZIONE

Quattro Papi per la riforma nella continuità

La "grande festa della fede" del 27 aprile 2014 è stata un grande evento mediatico e sociale seguito da oltre 1 miliardo di persone nel mondo. Ma il suo significato è nell'omelia di Papa Francesco: le piaghe di Cristo, la vicinanza al peccatore, la necessità di riformare la Chiesa nella sua continuità, un ritorno alle sorgenti per l’evangelizzazione di un mondo post-cristiano.

Ecclesia 28_04_2014
I 4 Pontefici

La grande «festa della fede» del 27 aprile 2014, come l’ha definita Papa Francesco al Regina Coeli, ha già offerto materia di riflessione anche ai sociologi, che certo continueranno ad analizzarla per qualche tempo. Non è solo il milione di pellegrini a Roma – anche se forse erano di più delle cifre ufficiali – a meritare un’analisi. Ci sono state altre riunioni religiose con folle più grandi: il record è proprio di san Giovanni Paolo II (1920-2005), che radunò cinque milioni di persone a Manila, nelle Filippine, per la Giornata Mondiale della Gioventù del 1995. Colpisce stavolta l’eco planetaria, i maxischermi in tante città, le televisioni di oltre cento Paesi, Internet, la stima di oltre un miliardo di persone che hanno seguito l’evento nel mondo. Manila 1995 fu una festa soprattutto per le Filippine, Roma 2014 è stata una festa mondiale. La partecipazione corale ha coinvolto ortodossi, protestanti, ebrei, perfino alcuni musulmani: e hanno colpito semmai per la loro «separatezza» i pochi irriducibili che si sono chiamati fuori come i Testimoni di Geova, per cui le canonizzazioni sono «riti pagani».

Da tempo la politica non è più in grado di organizzare adunate oceaniche: perfino in Cina non se ne fanno più, per evitare scomodi paragoni con il passato. Regge, come evento planetario, il calcio – molto meno altri sport –, dove però si celebrano, come i sociologi hanno scoperto da tempo, identità nazionali e locali in conflitto fra loro, mentre la Chiesa propone l’unità e l’universalità. Qualche commentatore – anche dotato di qualifiche accademiche – ha criticato la spettacolarità dell’evento di Piazza San Pietro, la televisione commerciale in 3D (che a me personalmente non è dispiaciuta), il tono inevitabilmente celebrativo che sembrerebbe in contrasto con lo stile di Papa Francesco. Ma forse tutto questo non è poi così lontano dal messaggio dei santi Giovanni XXIII (1881-1963) e Giovanni Paolo II, i quali – consapevoli che la moderna comunicazione di massa non può essere combattuta con successo – anziché contrastarla la abbracciarono, diventando rapidamente icone planetarie. Del resto, già il venerabile Pio XII (1876-1958) aveva raggiunto il mondo tramite la radio.

Per comprendere il senso dell’evento dobbiamo guardare però all’omelia di Papa Francesco, e anche al forte desiderio del Pontefice regnante di avere con sé nella concelebrazione Benedetto XVI, desiderio accolto di buon grado dal Papa emerito. I quattro Papi di cui tutti hanno parlato – due concelebranti e due canonizzati – hanno trasmesso infatti esattamente il messaggio che Papa Francesco aveva in mente: il messaggio, che è poi al centro del Magistero di Benedetto XVI, della riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa. La Chiesa non avanza nella storia in modo tranquillo e lineare. È «semper reformanda»: procede attraverso riforme frequenti, spesso sconcertanti per chi le vive, e tuttavia – insegnava Papa Ratzinger – sempre da leggere non in contraddizione ma in continuità, talora difficile, con il Magistero precedente, perché il soggetto Chiesa che avanza nella storia è uno solo e non cambia.

È un soggetto dove coesistono trionfo e dolore. L’omelia di Papa Francesco è partita dalle «piaghe gloriose di Gesù risorto». Perché, si è chiesto il Papa, nel corpo di Gesù dopo la Resurrezione «le piaghe non scompaiono»? Perché, se da una parte sono «scandalo per la fede», sono anche «verifica della fede». Restano anche dopo la Resurrezione, «perché quelle piaghe sono il segno permanente dell’amore di Dio per noi, e sono indispensabili per credere in Dio. Non per credere che Dio esiste, ma per credere che Dio è amore, misericordia, fedeltà. San Pietro, riprendendo Isaia, scrive ai cristiani: “Dalle sue piaghe siete stati guariti”».

Il Pontefice non ha citato il beato Antonio Rosmini (1797-1855), che a questo tema aveva dedicato profonde riflessioni, ma è apparso evidente il paragone fra le piaghe di Cristo e le ferite della Chiesa. Dire, come ha fatto Papa Francesco, che san Giovanni XXIII e san Giovanni Paolo II non si sono vergognati delle piaghe di Cristo e hanno avuto il coraggio di abbracciarle significa anche dire che hanno abbracciato la Chiesa: con la sua gloria imperitura, ma anche con le sue umane imperfezioni, con le ferite inferte dal mondo – in particolare dalle ideologie del XX secolo –, con la sua necessità costante di guarigione e di riforma. «Sono stati sacerdoti, e vescovi e papi del XX secolo. Ne hanno conosciuto le tragedie, ma non ne sono stati sopraffatti. Più forte, in loro, era Dio; più forte era la fede in Gesù Cristo Redentore dell’uomo e Signore della storia; più forte in loro era la misericordia di Dio che si manifesta in queste cinque piaghe; più forte era la vicinanza materna di Maria».

La speranza e la gioia dei due santi Pontefici sono «passate attraverso il crogiolo della spogliazione, dello svuotamento, della vicinanza ai peccatori fino all’estremo, fino alla nausea per l’amarezza di quel calice. Queste sono la speranza e la gioia che i due santi Papi hanno ricevuto in dono dal Signore risorto e a loro volta hanno donato in abbondanza al Popolo di Dio, ricevendone eterna riconoscenza».

Quale riforma i due nuovi santi hanno proposto alla Chiesa? Qui Papa Francesco ha affrontato – e non poteva essere altrimenti, considerato il ruolo dei due Pontefici canonizzati – il tema, che a differenza di Benedetto XVI tratta di rado, del Concilio Vaticano II e della sua corretta interpretazione. «Nella convocazione del Concilio san Giovanni XXIII – ha detto Francesco – ha dimostrato una delicata docilità allo Spirito Santo, si è lasciato condurre ed è stato per la Chiesa un pastore, una guida-guidata, guidata dallo Spirito. Questo è stato il suo grande servizio alla Chiesa; per questo a me piace pensarlo come il Papa della docilità allo Spirito Santo». Ma che cosa voleva e doveva essere, davvero, il Concilio? Risponde Papa Francesco – sulla scia di san Giovanni XXIII che lo convocò, e di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI che, dopo avervi partecipato, cercarono di riportarne l’interpretazione alle intenzioni originarie – che il Vaticano II voleva «ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria, la fisionomia che le hanno dato i santi nel corso dei secoli. Non dimentichiamo che sono proprio i santi che mandano avanti e fanno crescere la Chiesa».

L’interpretazione dell’«aggiornamento» – un’espressione tipica di Papa Giovanni – coincide esattamente con quella proposta da Benedetto XVI: un «ripristino della fisionomia originaria», un «ressourcement», un ritorno alle sorgenti per l’evangelizzazione di un mondo postcristiano, secondo la formula coniata al Concilio dai padri della cosiddetta «alleanza renana» di cui Papa Ratzinger nel commiato dai parroci romani dopo le dimissioni, del 14 febbraio 2013, ha orgogliosamente rivendicato di avere fatto parte al Vaticano II, come giovane teologo ma non con un ruolo secondario. Certo, sappiamo – e lo affermava in quell’intervento anche Benedetto XVI – che la formula del «ritorno alle origini» fu deformata e manipolata nel postconcilio. Ma essa continua a descrivere correttamente la missione del Vaticano II e la sua riforma. Benedetto XVI – e per questo è significativa la sua presenza a concelebrare in Piazza San Pietro – non ha mai messo in discussione la riforma in nome della continuità, ma ha chiesto a tutti di accettare le riforme lealmente, certo interpretandole nel senso della continuità ma senza mai cercare di svuotarle della loro carica rinnovatrice e meno ancora di rifiutarle in nome del passato.

Lo snodo difficile tra riforme e continuità non è finito con il Vaticano II, e non si esaurisce con la sua interpretazione. Continua oggi, e continuerà domani. Per questo Papa Francesco ha voluto concludere la sua omelia ricordando che il nuovo santo «Giovanni Paolo II è stato il Papa della famiglia. Così lui stesso, una volta, disse che avrebbe voluto essere ricordato, come il Papa della famiglia». «Mi piace sottolinearlo – ha detto Francesco – mentre stiamo vivendo un cammino sinodale sulla famiglia e con le famiglie, un cammino che sicuramente dal Cielo lui accompagna e sostiene. Che entrambi questi nuovi santi Pastori del Popolo di Dio intercedano per la Chiesa affinché, durante questi due anni di cammino sinodale, sia docile allo Spirito Santo nel servizio pastorale alla famiglia. Che entrambi ci insegnino a non scandalizzarci delle piaghe di Cristo, ad addentrarci nel mistero della misericordia divina che sempre spera, sempre perdona, perché sempre ama».

San Giovanni Paolo II ha istituito la festa della Divina Misericordia, ne ha canonizzato l’apostola santa Faustina Kowalska (1905-1938), è morto alla vigilia della festa della Misericordia ed è stato canonizzato nella domenica della Misericordia. La festa globale del 27 aprile è stata la grande festa della misericordia. Non era il momento per chiedersi come la misericordia nei due sinodi che verranno – quello straordinario sulla famiglia e quello ordinario che lo seguirà – sarà declinata insieme alla fedeltà e alla verità. Né come la riforma, se ci sarà, sarà declinata insieme alla continuità. Ma la presenza insieme in Piazza San Pietro di quattro Papi riformatori – nell’elenco va certo incluso anche Benedetto XVI, perché l’invenzione del suo attuale ruolo di Papa emerito non è certo la meno sorprendente delle riforme recenti nella Chiesa – è stata voluta e cercata per dare appunto a tutti un senso visibile della riforma nella continuità.