"Ogni battesimo è un progetto di martirio" Padre Haddad e la testimonianza dei cristiani siriani
Gran parte dei cristiani siriani è rimasto in Siria. Questo perché "siamo parte del tessuto essenziale del popolo" e "non ci siamo mai sentiti una minoranza". Padre Mtanios Haddad, archimandrita melchita, porterà alla Festa della Bussola la testimonianza di fede dei cristiani siriani. E ci parla delle idee sbagliate che abbiamo dell'accoglienza dei rifugiati.
di Stefano Magni
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Siria, dopo cinque anni e mezzo di guerra, ci sono cristiani che ancora resistono, testimoniano la fede e preferiscono il martirio alla conversione forzata. Contrariamente al vicino Iraq, dove i cristiani sono quasi del tutto estinti (ne sono rimasti 300mila quando prima della guerra del 2003 erano 1 milione e mezzo), in Siria i cristiani erano fra il 10% e il 12% della popolazione siriana ed oggi sono ancora l’8%. Nonostante l’Isis sia nato proprio in Siria e qui siano avvenute alcune delle peggiori stragi e compiute gravi distruzioni dei luoghi sacri della cristianità, come l’antichissimo monastero di Mar Elian. La Nuova Bussola Quotidiana ne ha parlato con padre Mtanios Haddad, archimandrita melchita, rettore della basilica di Santa Maria in Cosmedin a Roma, rappresentante patriarcale presso la Santa Sede.
Quando si parla di minoranze religiose di un paese arabo, l’osservatore occidentale tende a concepirle come un corpo estraneo. E così le fanno passare anche gli jihadisti, che vogliono cancellare tutte le tracce non islamiche (e anche quelle islamiche da loro ritenute “idolatre”) dalle terre che conquistano. Ma i cristiani, come ci spiega subito padre Haddad, “non sono arrivati in Siria dopo secoli o anni dopo Cristo, ma quaranta giorni dopo la Pentecoste, il tempo che si impiega viaggiando a piedi da Gerusalemme ad Antiochia. I cristiani che sono fuggiti dalla prima persecuzione giudaica, hanno segnato l’inizio della presenza cristiana in Siria. Uno dei loro persecutori più accaniti, Saulo, si convertì proprio sulla via di Damasco. Gli Atti degli Apostoli documentano la prima massiccia presenza dei cristiani ad Antiochia. La Chiesa Melchita discende direttamente dal primo patriarcato.
Balza all’occhio la differenza fra la resistenza dei cristiani in Siria e la fuga di quelli iracheni. Dal suo punto di vista, come mai i cristiani restano in Siria, nonostante il grave pericolo di persecuzione?
Non entro nel merito del caso iracheno, ma comunque in Siria ci siamo sempre sentiti nel tessuto essenziale del popolo. Siamo diciotto famiglie cristiane, fra cattolici, ortodossi, armeni cattolici, armeni ortodossi, caldei, assiri… un mosaico che si è sempre armonizzato con i nostri cugini musulmani. La convivenza fra religioni era garantita dal governo del partito Baath, laico, per quasi mezzo secolo. Nel periodo baatista non veniva più indicata la religione sulla carta di identità, (caso veramente raro in tutto il Medio Oriente, ndr). Eravamo tutti cittadini siriani, con pari diritti, indipendentemente dalla nostra religione. Andavamo a scuola gratuitamente, l’istruzione era garantita a cristiani e musulmani senza distinzione. Durante la guerra, noi cristiani siamo nel mirino di un islam fanatico che è stato letteralmente importato. E questo ci ha spinti ulteriormente a difendere il nostro paese. I terroristi hanno distrutto infrastrutture, scuole, ospedali, costruiti con gran sacrificio in mezzo secolo, da cristiani e musulmani. Non ci sentiamo affatto una “minoranza”, ma cittadini siriani. Il nostro patriarca melchita, il patriarca greco-ortodosso e il patriarca siro-ortodosso, hanno firmato un appello affinché i cristiani restino e resistano, incluso anche chi si trasferisce nei campi di rifugiati in Libano e in Giordania, paesi vicini da cui è facile tornare. Chi invece fugge oltremare, raramente tornerà indietro. Anche i nostri patriarchi hanno assunto il dovere di restare vicino al loro popolo. Ogni mese, aiutano non solo i loro fedeli, ma tutti i cittadini della zona. Il nostro patriarca, a Damasco, assiste i cattolici, gli ortodossi e i musulmani. Ed ogni aiuto che arriva al patriarcato melchita viene distribuito a tutto il popolo. E lo stesso fanno anche gli altri patriarchi. Ad esempio, nell’ultimo Ramadan celebrato ad Aleppo, erano i cristiani che preparavano i pasti per i musulmani, per quando rompono il digiuno dopo il tramonto.
Lei vive a Roma, sta sentendo con quanto vigore viene affrontato il dibattito sull’immigrazione e sui rifugiati. Cosa ne pensa?
Non da ora, ma da due anni, ogni volta che si parla di rifugiati siriani, le immagini dei telegiornali mostrano immigrati africani. Ci sono anche siriani, sicuramente, ma mi sembra che i politici non abbiano il coraggio di parlare dell’immigrazione per come è realmente. La questione rifugiati sembra sia diventata una merce di scambio per ottenere voti. Io ringrazio ogni italiano che ospita un rifugiato siriano che arriva qui a causa della guerra, ma ho idea che non si debba vendere la pelle dei migranti per guadagnarci qui in Italia. E parlo di guadagni grossi, considerando che la criminalità organizzata guadagna con la tratta di esseri umani più ancora che con il commercio di droga e delle armi.
Per aiutare i cristiani siriani in pericolo, quale miglior comportamento dovremmo tenere?
Sia i cristiani che i musulmani devono, prima di tutto, poter tornare in Siria. Quando apriamo tutte le porte, senza controllare chi entra, non facciamo altro che permettere ai terroristi di infiltrarsi fra gli emigranti. Quando la Turchia ha riversato profughi sull’Europa per poter chiedere più soldi, abbiamo continuato a sentirci dire che fra di loro non c’erano terroristi, ma poi abbiamo visto i risultati con gli attentati in Europa. Dobbiamo invece distinguere, controllare, capire quali sono le reali esigenze di ogni immigrato. E’ vero quel che si dice spesso: che la pace costa meno della guerra. Se volete aiutarci realmente, aiutateci a vivere in pace a casa nostra, con la nostra dignità di cristiani siriani. Non dobbiamo dimenticare, anche se arriviamo fin qui in Europa, che un giorno dovremmo poter tornare nel nostro paese. E dico di più: se l’Europa ha veramente bisogno di manodopera esperta, quale è quella siriana, allora dateci la pace, poi stipulate regolari contratti di lavoro, così che si conservi la dignità di tutti coloro che vogliono realmente lavorare in Europa, con un permesso di soggiorno regolare.
Ha parlato di diverse immigrazioni. Come pensa che sia gestito il dialogo inter-religioso in Italia?
Nessuno è preparato a questa emigrazione di massa e soprattutto non vedo molta preparazione nel dialogo inter-religioso. E’ un errore togliere i crocefissi per apparire più accoglienti. In Siria il governo stesso non permetteva che venissero rimossi presepi, croci e altri simboli cristiani. E’ solo qui in Europa che inizio a sentire sindaci che tolgono le croci e dicono che noi siamo un paese laico e quindi non possiamo esporre il presepe in luogo pubblico. Non si può fare così un dialogo inter-religioso chiaro e trasparente. In Siria questo dialogo, che durava da decenni, lo si faceva a livello di comunità, nelle vie e nelle piazze, con il patriarca che si incontrava con l’imam della sua zona quasi tutte le settimane, prendendo il tè assieme, parlando dei problemi concreti dei loro cittadini. Qui in Italia, da quel che vedo, si tenta di fare dialogo inter-religioso in alberghi a cinque stelle con discorsi preparati, non si fa nelle piazze e con gente comune.
Molto diverso dalle continue prediche sull’accoglienza…
Per carità, io non li biasimo, ma forse non hanno modo di dire la verità. Noi non vogliamo vivere alle spalle della vostra economia, non vogliamo vivere a scrocco, non sulle vostre tasse. Non vogliamo venire in Europa e rompere il vostro equilibrio sociale. Anche quando arrivano fondamentalisti islamici e iniziano a imporre una teologia e delle tradizioni differenti dalle nostre, noi stessi restiamo in imbarazzo. Non vendete più armi ai terroristi, non lasciate entrare i terroristi in Siria: vi costerebbe meno. Ed è inutile piangere sulla mancanza di cibo, latte per i bambini e cure mediche sul posto: togliete l’embargo, piuttosto. Sono convinto che occorrano tre cose: chiudere il mercato delle armi dall’America (destinate ai terroristi), chiudere il portafogli dell’Arabia Saudita (che finanzia i terroristi) e chiudere la frontiera con la Turchia (da dove passano i terroristi). La nostra vocazione di cristiani orientali è quella di restare lì dove siamo da 2000 anni, nascere, vivere e crescere nel Medio Oriente.
Fra i cristiani che hanno deciso di vivere in Siria, molti hanno affrontato il martirio. Ci può fare degli esempi?
A Maalula, quando è arrivato l’Isis, ha fatto subito martiri. I nostri della chiesa melchita hanno avuto almeno tre martiri certi: avevano ricevuto la proposta di convertirsi all’islam o perire. Il primo ha rifiutato ed è stato ucciso davanti agli altri due. Poi lo hanno chiesto al secondo, ha rifiutato ed è stato ucciso anche lui. Stessa cosa con il terzo. Tutti e tre hanno risposto “noi siamo stati battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Erano Mikhael Taalab, suo cugino Antoun Taalab, Sarkis el Zakhm, nipote di Mikhael. Quando il nostro patriarca è venuto in visita a Roma, io l’ho accompagnato dal cardinale Amato, prefetto della causa dei santi, per presentare il loro caso. Sono stati assassinati in odium fidei, sono martiri. Caso diverso è quello dei cristiani morti da eroi, nella guerra per difendere il loro paese dai terroristi, prestando servizio militare e preferendo perire pur di arrendersi. Malgrado le stragi, malgrado le distruzioni, le chiese distrutte le città intere incendiate, noi preferiamo restare in Siria da cristiani. Noi siamo convinti che ogni battesimo sia un progetto di martirio, perché noi sappiamo, da 2000 anni di esperienza, che la nostra vita non sarà facile.
di Stefano Magni