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LA QUESTIONE

Indi Gregory, ecco perché non c’è accanimento terapeutico

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In un’intervista al Corriere il responsabile del Comitato etico della Siaarti, Alberto Giannini, sostiene, contraddicendosi, che per Indi ci sia accanimento terapeutico. In realtà le terapie salvavita fornite alla bimba anglo-italiana sono efficaci e proporzionate.

Life and Bioethics 09_11_2023
Indi Gregory (foto da Christian Concern)

Sul caso Indi Gregory, la bambina anglo-italiana affetta da rara malattia mitocondriale che i giudici inglesi vogliono condannare a morte, il Corriere della Sera ha intervistato Alberto Giannini, direttore dell’Anestesia e Rianimazione Pediatrica Ospedale dei Bambini ASST Spedali Civili di Brescia e responsabile del Comitato etico della SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva). Il quesito di fondo è il seguente: mantenere in vita questa bambina fortemente disabile configura accanimento terapeutico? Per il dottor Giannini la risposta è positiva.

Quest’ultimo fornisce, sostanzialmente, una corretta definizione di proporzionalità delle cure quando si riferisce al fatto che «occorre di volta in volta ragionare sull’appropriatezza e dunque sull’idoneità della cura, sulla sua efficacia, sulla probabilità di successo, sulla durevolezza del risultato, sulla sua attuabilità e sulle sue complicanze». Una terapia efficace è quella che promette più benefici che danni. All’opposto si configura accanimento clinico quando i danni previsti superano i benefici. Ciò vuol dire che per comprendere se una terapia sarà efficace occorrerà mettere sui piatti della bilancia quanti saranno i danni e gli effetti positivi, quali saranno (quindi la loro importanza, la loro incidenza) e calcolare il grado di probabilità che ciascuno di essi si verifichi.

Nel caso di Indi vengono messe in discussione le terapie salvavita che le stanno fornendo. Queste ultime possono in alcune ipotesi configurare accanimento terapeutico? Sì, in alcuni casi il gioco non vale la candela. Ad esempio insufflare ossigeno, con la ventilazione assistita, in una struttura polmonare fortemente compromessa potrebbe addirittura portare ad accelerare la morte del paziente; somministrare idratazione e nutrizione assistita ad un paziente cachettico – condizione di fortissima prostrazione di tutto l’organismo – potrebbe in alcune circostanze persino far peggiorare la situazione; sottoporre a radioterapia corporea totale un paziente oncologico terminale, con metastasi multiorgano, in diversi casi potrebbe essere inutile o, più spesso, addirittura controproducente perché esporrebbe ad uno stress vano il corpo e la psiche del paziente.

Indi rientra in queste casistiche? È dunque sottoposta a trattamenti salvavita inefficaci? E quindi, si sta praticando su di lei accanimento terapeutico? La risposta è negativa. Attenzione a ciò che lo stesso dott. Giannini diceva: «occorre di volta in volta ragionare […] sulla sua [della cura] efficacia, sulla probabilità di successo, sulla durevolezza del risultato, sulla sua attuabilità e sulle sue complicanze». Gli effetti negativi da tenere in considerazione per valutare se la terapia configura accanimento clinico devono provenire, come giustamente appunta il medico, dalla terapia stessa. Le terapie a cui è sottoposta Indi da una parte producono il grande effetto positivo di tenerla in vita e su altro fronte provocano qualche disagio non paragonabile, però, all’importantissimo risultato di farla vivere.

La patologia da cui è affetta Indi e le relative disabilità non possono quindi venire addebitate alle terapie salvavita. A queste non possiamo chiedere di guarire la piccola paziente, bensì il loro fine è il mantenimento in vita. È in merito a questo fine che occorre giudicare se le terapie sono appropriate o no, sono efficaci o meno, sono adeguate o inadeguate. La risposta è che sono efficaci perché proporzionate al loro naturale obiettivo: conservare in vita.

Per Giannini invece – ed è qui il punto – la conservazione in vita di una persona disabile è accanimento terapeutico. «Tornando al caso della bambina inglese – dichiara il medico – di fronte a una malattia molto grave e non curabile, se le condizioni cliniche sono quelle che supponiamo, è ragionevole pensare che un supporto vitale come la ventilazione non sia più proporzionato, e che quindi possa essere clinicamente ed eticamente corretto sospendere questo trattamento. Decisione che, ci tengo a ribadire, non significa effettuare un’eutanasia». Invece è proprio eutanasia: provoco la morte di Indi togliendole i supporti vitali perché non potrà guarire.

Giannini, come accennato, si contraddice: infatti prima, correttamente, indica come effetti negativi da tenere in considerazione per valutare la presenza di trattamenti propri dell’accanimento terapeutico quelli che promanano dai trattamenti stessi e poi qualifica la ventilazione come accanimento terapeutico: ma la disabilità di Indi non deriva dalla ventilazione, bensì dalla sua patologia mitocondriale. Per verificare l’efficacia della ventilazione, dunque, non è corretto mettere sul piatto della bilancia la disabilità di Indi perché questa non deriva dalla ventilazione.

In buona sostanza il dott. Giannini, magari senza rendersene conto, legittima l’eutanasia mascherandola da rifiuto dell’accanimento terapeutico. Astraendo ora dalle affermazioni del dott. Giannini, il trend consolidato sul fronte cosiddetto pro-choice è proprio il seguente: considerare alcune vite affette da gravi disabilità come oggettivamente non più degne di essere vissute. È la condizione di disabilità in cui versa il paziente ad essere giudicata non più proporzionata ad una qualità minima della vita. Un’esistenza considerata non più consona alla dignità personale. Di conseguenza tutte quelle terapie che conservano tale condizione sproporzionata, perché indegna di una persona, sono qualificate esse stesse sproporzionate e quindi da rifiutare.

Ma, sta qui la nostra risposta, nessuna patologia, nessuna deficienza, nessuna mancanza di funzioni elevate e nessun dolore potranno mai intaccare la dignità di una persona, potranno mai erodere la sua intima preziosità, perché quest’ultima vale per chi è, non per come è o per quello che fa (ci riferiamo alla dignità naturale). In caso contrario avremmo persone di serie A – giovani e in salute – e persone di serie B – anziani e malati. A seguire con rigore la logica sottesa alle affermazioni del dott. Giannini, non si può escludere che nel prossimo futuro molte altre categorie di pazienti si vedranno private delle terapie salvavita. Se la vita di Indi, come quelle di Charlie, Alfie, Archie, non sono più degne di essere vissute e ogni tentativo di tenere in vita questi pazienti è accanimento terapeutico, perché quelle dei pazienti oncologici terminali dovrebbero sfuggire ad analogo destino? E i malati di Alzheimer? I disabili mentali? I malati affetti da SLA? Le persone Down? Tutte condizioni cliniche severe, ad oggi inguaribili. La platea di possibili condannati a morte, perché soggetti che non raggiungono i requisiti minimi per vivere una vita qualitativamente apprezzabile, si allarga a dismisura. E inoltre: chi decide quali sono questi parametri che permettono di accedere a terapie salvavita?

C’è infine da aggiungere che le citazioni di alcune affermazioni di papa Francesco e di Pio XII – citazioni che secondo Giannini dovrebbero giustificare l’interruzione delle terapie nel caso Indi – confermano semplicemente che sono moralmente vietati tutti quegli interventi che configurano accanimento terapeutico, compresi gli interventi che potrebbero prolungare per un certo lasso di tempo la vita. Quindi non c’è l’avallo di questi due pontefici a decisioni eutanasiche, volte cioè a sopprimere una persona perché inguaribile (ma sempre curabile). Dunque, quelle due citazioni nulla c’entrano con il caso Indi.



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