AUTORI DEL '900/UNGARETTI

Il vate che approdò nel porto della fede

Nei versi ermetici del poeta il travaglio di un uomo che si è sempre interrogato sul mistero dell'animo umano fino alla conversione.

Culture 10_09_2011
Ungaretti In Ragioni d’una poesia Ungaretti (1888-1970) scrive: «Il mistero c’è, è in noi. Basta non dimenticarcene. Il mistero c’è, e col mistero, di pari passo, la misura; ma non la misura del mistero, cosa umanamente insensata; ma di qualche cosa che in un certo senso al mistero si opponga pur essendone la manifestazione più alta: questo mondo terreno considerato come continua invenzione dell’uomo». Lontano dal razionalismo e da una ragione ridotta a misura, Ungaretti è da sempre animato da un vivo senso religioso, da un desiderio sincero di capire le ragioni, di andare nella profondità delle cose. La sua poesia vuole raccontare la scoperta della realtà e della verità. Nella poesia che dà il titolo alla prima raccolta Il porto sepolto Ungaretti scrive: «Vi arriva il poeta/ e poi torna alla luce con i suoi canti/ e li disperde// Di questa poesia/ mi resta/ quel nulla/ d’inesauribile segreto».

Pubblicata in ottanta copie nel 1916, la silloge viene, poi, ripubblicata prima con il titolo L’allegria di naufragi (1919) e poi L’allegria (1931). La scrittura di Ungaretti è sempre più orientata nella direzione della scarnificazione del verso, dell’abolizione della punteggiatura, dell’espressione lapidaria, dell’uso del blanchissement (lo spazio bianco) per scolpire la poesia. Il verso, reso sempre più essenziale, si riduce talvolta ad una sola parola e diventa rivelatore del tentativo del poeta di andare al cuore delle cose e della vita, senza orpelli retorici e paludamenti che nascondano l’evidenza della realtà. Il titolo delle poesie è accompagnato dal riferimento al luogo e alla data di composizione (come in un diario). L’esperienza della morte nella prima raccolta porta Ungaretti ad amare ancora di più la vita. Così, nella notte trascorsa in trincea a fianco di un compagno morto, il poeta scrive «lettere piene d’amore», perché non è mai stato «tanto/ attaccato alla vita». (Veglia).

Partito volontario per la grande guerra, Ungaretti la affronta come soldato semplice, non in audaci operazioni o imprese militari come D’Annunzio, ma nell’esperienza traumatica della trincea, al fronte, prima quello italiano, poi quello francese. A Mariano, nel 1916, vede la sua stessa fragilità e il suo stesso ardore di vita e di amore nel nemico, suo fratello (Fratelli). Nel bosco di Courton, nel 1918, le mitragliatrici tedesche abbattono i soldati nemici che cadono come le foglie in autunno dagli alberi («Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie»). La guerra porta ad uccidere l’altro uomo. Ungaretti si ribella a questa violenza che distrugge i paesi lasciandone solo «qualche brandello di muro» e che ha trasformato il suo cuore in un cimitero, «il paese più straziato» (San martino del carso).

L’esperienza della precarietà non annienta, anzi accentua il desiderio di infinito e di eternità del poeta. Ancora non credente, Ungaretti scrive: «Chiuso fra cose mortali// (anche il cielo stellato finirà)// perché bramo Dio?» (Dannazione in L’allegria). L’uomo non si può accontentare soltanto di soddisfare il bisogno fisico, altrimenti sarebbe come la bestia. E ancora nella poesia Sereno (1918) il poeta scrive: «Dopo tanta/ nebbia/ a una/ a una/ si svelano/ le stelle». Il cuore di Ungaretti prova arsura e vuole essere colmato. In Perché? (1916) Ungaretti scrive: «Ha bisogno di qualche ristoro/ il mio buio cuore disperso». La domanda del poeta troverà risposta alcuni anni dopo.

Nel 1928 Ungaretti si reca nel monastero di Subiaco con un amico e si compie il suo cammino di conversione. Scriverà più tardi: «Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando è pura bestemmia. Oggi il poeta è tornato a sapere, ad avere gli occhi per vedere, e, deliberatamente, vede e vuole vedere l’invisibile nel visibile». L’anno successivo alla conversione di Ungaretti muore sua madre. Ora il mistero della morte è contemplato alla luce di una speranza più grande. Così Ungaretti parla della persona a lui più cara non in termini memoriali, ma a colloquio con lei ancor viva e che si trova finalmente davanti all’eterno. È una delle poesie più toccanti e più belle, La madre, in cui ben emerge l’influenza che la religiosità materna, stampata nella sua memoria fin da piccolo, ebbe, poi, nella formazione della sua persona, anche se la conversione lo avrebbe toccato solo a quarant’anni, dopo aver incontrato nuovamente il cristianesimo.

Ci riempiamo di commozione
alla lettura di questi versi: «E il cuore quando d’un ultimo battito/Avrà fatto cadere il muro d’ombra,/Per condurmi, Madre, sino al Signore,/Come una volta mi darai la mano.//In ginocchio, decisa,/Sarai una statua davanti all’Eterno,/Come già ti vedeva/Quando eri ancora in vita.//Alzerai tremante le vecchie braccia,/Come quando spirasti/Dicendo: Mio Dio, eccomi.//E solo quando m’avrà perdonato,/Ti verrà desiderio di guardarmi.//Ricorderai d’avermi atteso tanto, /E avrai negli occhi un rapido sospiro». Il componimento confluirà nella seconda raccolta del poeta, Il sentimento del tempo, caratterizzata da una riscoperta della tradizione (su tutti Petrarca e Leopardi), del verso e delle forme metriche passate oltre che dalle suggestioni della filosofia di H. Bergson.

Anche in Lucca Ungaretti ricorda la madre in atteggiamento di preghiera: «A casa mia, in Egitto, dopo cena, recitato il rosario, mia madre ci parlava di questi posti». La poesia di Ungaretti è un grido. Nella poesia La pietà (1928) il poeta scrive: «Sono un uomo ferito». In Dannazione (del 1931, omonima alla poesia di L’allegria, ma appartenente a Sentimento del tempo) si rivolge a Dio con tali parole: «Tu non mi guardi più Signore». Dieci anni dopo la morte della madre il dolore colpirà ancora Ungaretti nella forma più atroce, la perdita del figlio Antonietto. Il poeta si è trasferito in Brasile per insegnare letteratura italiana all’università. Il figlio viene ricoverato in ospedale per un’appendicite e muore in seguito ad una peritonite. La sofferenza troverà espressione nella raccolta Il dolore (1947). Ungaretti scrive: ««Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto...»/[…] Come si può ch'io regga a tanta notte? […]/E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!».

Potrà trovare conforto solo nella fede: «In cielo cerco il tuo felice volto,/ed i miei occhi in me null'altro vedano/ quando anch'essi vorrà chiudere Iddio». La speranza e la fede non vengono mai meno. In Accadrà leggiamo: «Anelante di grazia,/in tanta tua agonia/ Ritornavi a scoprire/ […] che gli uomini sono uguali/ Figli d’un sole,/ d’un eterno Soffio. […] Ora accadrà che cenere prevalga?». Altre raccolte usciranno fino agli ultimi anni di vita del poeta.

L’opera che le comprende tutte porta il significativo titolo Vita di un uomo. La sua poesia si propone, così, come testimonianza di un cammino, di un percorso umano, di una scoperta della realtà che matura nell’esperienza, possibile in un confronto costante con la propria umanità e il proprio cuore, sempre scevro di un approccio ideologico. Non deve trarre in inganno, infatti, la sua adesione al partito fascista e la nomina ad accademico d’Italia che non inficiarono in alcun modo la sua scrittura, ma, probabilmente, ostacolarono il conseguimento del premio Nobel. Lo conseguirà, invece, Quasimodo.

In una lettera del 1959 inviata all’amico Jean Lescure, il suo principale traduttore francese, Ungaretti polemizzerà proprio con Quasimodo, considerato immeritevole e accusato di un antifascismo opportunista e insincero. Parole sdegnose saranno rivolte anche alla giuria e a un premio, il Nobel, che, a detta di Ungaretti, raramente viene conferito ai più meritevoli. La poesia di Ungaretti rimane grande, proprio perché è uno scavo nella profondità dell’animo umano. Così, ci piace congedare il nostro autore proprio con quei versi che Ungaretti ha posto a «Commiato» a Il porto sepolto: «Quando trovo/ in questo mio silenzio/ una parola/ scavato è nella mia vita/ come un abisso».