IL DIBATTITO SU AMORIS LAETITIA

Dubia e comunione ai divorziati risposati caso per caso.

Dopo la pubblicazione dei dubia e la risposta di Buttiglione, il dibattito continua con il teologo Schwibach, che al filosofo replica: "Il metodo che utilizza è quello di una forzata ermeneutica di “riforma in continuità”,che consiste nell’accettazione di situazioni soggettive determinate da circostanze e dove la “continuità” vorrebbe essere garantita dall’affermazione assoluta di un principio, visto però nella sua idealità. Ma Dio all’uomo non chiede l’impossibile né lo pone davanti a puri ideali". 

 

-BUTTIGLIONE DICE SI', MA NON REGGE  

Ecclesia 29_11_2016
Il card Schonborn con il testo di Amoris Laetitia

Tra le reazioni seguite alla lettera dei quattro cardinali con i Dubia sull'interpretazione del capitolo VIII di Amoris laetitia, alcune, le più articolate, risolvono le questioni centrandosi sul rapporto tra situazione oggettiva di peccato e imputabilità soggettiva del peccatore. Questa sarebbe la porta entro cui far passare una pastorale del “caso per caso”.

«Il gioco delle opposizioni tra “soggettivo” e “oggettivo” assomiglia ad una specie di quadratura del cerchio», dice alla Nuova BQ lo studioso tedesco Armin Schwibach, oggi incaricato all'Ateneo pontificio Regina Apostolorum, professore di filosofia con studi in teologia alla Gregoriana e alla Lateranense. Lo abbiamo contattato per una riflessione sulle interessanti considerazioni che il professor Rocco Buttiglione ha pubblicato sul portale web Vatican Insider in risposta ai dubia dei quattro cardinali.

Nella soluzione data da Buttiglione al primo dubium, egli risponde che sì, un confessore può dare l'assoluzione nel caso di una coppia di divorziati risposati conviventi more uxorio, mentre, nello stesso tempo, il professore ribadisce che gli atti sessuali fuori dal matrimonio sono illegittimi.

Professor Schwibach, pare che Buttiglione da una parte sostenga che un confessore può dare l'assoluzione nel caso indicato, ma poi il penitente deve impegnarsi “ad uscire dalla situazione di peccato”. A questo punto il “sì” al primo dubia sembra risolversi in una sorta di conferma indiretta di quanto già espresso da Familiaris consortio al n°84. Cosa ne pensa?

Penso innanzitutto che il Prof. Buttiglione tenti una specie di quadratura del cerchio, impresa impossibile, ma schema “allettante” nel costante gioco delle opposizioni tra “soggettivo” e “oggettivo”, che è presente in tutte le sue risposte ai “dubia”. Spesso tale opposizione si usa per nascondere la fondamentale contraddittorietà dei principi applicati. Il metodo è quello di una forzata ermeneutica di “riforma in continuità”, dove la “riforma” consiste nell’accettazione di situazioni soggettive determinate da circostanze (anche estreme) e dove la “continuità” vorrebbe essere garantita dall’affermazione assoluta di un principio, visto però nella sua idealità.

Quindi l’affermazione di Familiaris consortio 84 si presenta come affermazione di un ideale, mentre prima di giungervi è possibile anche altro (lecito benché illegittimo). Questo rappresenta il nucleo dell’ambiguità del testo in oggetto, che è poi la motivazione che ha spinto i signori cardinali a formulare le loro domande.

In un'altra risposta il professor Buttiglione richiama il canone 915 del codice di diritto canonico. E afferma che tale «canone non esprime un precetto né di diritto naturale, né di diritto divino». Ma leggendo la Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi del 2000 si evidenzia, invece, che questo canone offre una proibizione [all'accesso all'eucaristia per i divorziati risposati] che «per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l'ambito delle leggi ecclesiastiche positive». Come mai questa differenza?

E' una differenza essenziale. Ciò che afferma la “Dichiarazione” coincide con la dottrina della Chiesa e chiarisce inoltre che le leggi positive ecclesiastiche non permettono modifiche che si oppongano alla dottrina della Chiesa. La “Dichiarazione” spiega che è il peccato grave, che impedisce l’ammissione alla Santa Comunione, a prescindere da quello che potrebbe verificarsi nel soggetto. Questo peccato grave è da comprendere nella sua oggettività, perché nessuno è in grado di conoscere lo stato soggettivo della persona.

A ciò si aggiunge un altro aspetto che la “Dichiarazione” evidenzia: «Nel caso concreto dell’ammissione alla sacra Comunione dei fedeli divorziati risposati, lo scandalo, inteso quale azione che muove gli altri verso il male, riguarda nel contempo il sacramento dell’Eucaristia e l’indissolubilità del matrimonio. Tale scandalo sussiste anche se, purtroppo, siffatto comportamento non destasse più meraviglia: anzi è appunto dinanzi alla deformazione delle coscienze, che si rende più necessaria nei Pastori un’azione, paziente quanto ferma, a tutela della santità dei sacramenti, a difesa della moralità cristiana e per la retta formazione dei fedeli». San Giovanni Paolo II, tra l'altro, conferma questa dottrina nella sua enciclica “Ecclesia de Eucaristia”.

Ecco dunque la mia breve risposta: dire che il canone 915 “non esprime un precetto né di diritto naturale, né di diritto divino” è un errore (anche grave), in piena contraddizione con la dottrina.

Il prof. Buttiglione torna ancora nella distinzione tra una situazione oggettiva ed una soggettiva del peccatore, arrivando poi a teorizzare una differenza tra peccato grave e peccato mortale. Ma Giovanni Paolo II, mi pare, avesse in qualche modo stigmatizzato tale distinzione nell'esortazione Reconciliatio e Paenitentia (1984). Inoltre, la domanda posta nel dubia numero 3 si riferisce chiaramente alla situazione “oggettiva” (pubblica) della condizione di peccato abituale che due conviventi more uxorio si trovano a vivere. Forse il professore è andato “fuori tema”?

Faccio una premessa: San Giovanni Paolo II chiarisce: “Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l'aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica, qual è appunto l'«opzione fondamentale», intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale” (Reconciliatio et Paenitentia 17).

Il professore opera ancora il già menzionato “gioco” tra i livelli del “soggettivo” e dell’ “oggettivo”. Si nota una fondamentale diffidenza e limitazione della capacità cognitiva e della libertà di volontà dei singoli. Questo può senz’altro valere nella sfera di singole decisioni morali errate, ma secondo la dottrina della Chiesa sicuramente non per decisioni che riguardano la vita (dell’uomo con sé stesso e con Dio). Secondo la dottrina del Concilio di Trento, Dio all’uomo non chiede l’impossibile né lo pone davanti a puri “ideali”.

Nella risposta al dubia numero 5 Buttiglione sembra fare un esempio, quello di Zaccheo, che si riferisce ad una norma positiva (“restituire il maltolto”) e non sembra affrontare il cuore del dubium, proponendo per l'ennesima volta la distinzione tra situazione soggettiva e oggettiva. Ma di fronte alle norme morali assolute, come “non commettere adulterio”, è possibile che la coscienza in qualche modo si metta in tensione con il Comandamento divino fino a valutare come “bene possibile” la sua azione?

No. L’affermazione di una tale possibilità è il vizio di tutte le etiche che vorrebbero far derivare i loro principi da contesti e situazioni. La dottrina della Chiesa rifiuta la negazione dell’esistenza di una legge morale oggettiva e assoluta, la cui assolutezza deriva dagli oggetti ai quali si riferisce. Un’azione negativa in sé non potrà mai essere giustificata per eventuali conseguenze “buone” che ne deriverebbero. La coscienza morale è in grado di conoscere e di discernere ciò che è oggettivamente buono o cattivo. Ciò che è buono o cattivo in un’azione non dipende dalle intenzioni buone o cattive. Non è la coscienza morale che decide sulla bontà di qualcosa, ma riconosce il bene ( o il male) e agisce di conseguenza. La coscienza morale agisce secondo la verità e dipende dalla verità. Non crea nuove verità.

E la verità è una qualità assoluta, che non permette il suo dissolvimento in diverse verità solo quantitativamente descrivibili. La coscienza morale segna la presenza di un punto di vista assoluto nei limiti di un essere umano finito. Questo assoluto e questa oggettività sono già presenti nell’uomo. Il bene si mostra e in quanto tale determina l’azione, non accade il contrario. Quindi da una parte la coscienza morale conduce l’uomo al di là di se stesso, quindi essa è luogo di autotrascendenza e relativizza la propria limitatezza e immanenza, dall’altra riporta l’uomo in se stesso e lo pone davanti alle sue responsabilità, che non sono né derogabili né delegabili. Veramente buono è solo ciò che e buono soggettivamente e oggettivamente. Una presunta bontà soggettiva (che però è negativa e cattiva) non potrà mai produrre alcun bene oggettivo. Se si spacca tale unione tra soggettivo e oggettivo si spacca l’unità della persona umana