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L'INCHIESTA/2

Abbandoni da Covid: «Così papà è morto in pochi giorni»

Una storia di abbandono terapeutico, che mostra come sia urgente rivedere le linee guida sulle cure precoci. Como: l'80enne Mario Marcon lasciato per una settimana in vigile attesa senza essere visitato nonostante i primi sintomi, poi la terapia insufficiente con l'ossigeno. Il racconto della figlia ai Venerdì della Bussola: «Ritardi nella diagnosi, difficoltà di comunicazione col medico e errori nella fornitura delle bombole. È morto in ospedale. Non ci hanno nemmeno mostrato la salma».
- IL DOSSIER: COVID AT HOME

Attualità 06_03_2021

Morire di covid. Non ci facciamo ormai più caso, sembra un fatto ineluttabile. Colpa della narrazione mediatica che mette tutti i decessi in un unico calderone, come se fossero una conseguenza fatalista di una pandemia invincibile. Ma se guardiamo dentro le storie si scopre che ci sono anche sfumature che possono sembrare decisive. Sfumature in grado di farci percepire una realtà di morti covid per abbandono terapeutico.

Pazienti che hanno perso la vita a causa di lentezze e inefficienze dovute a un sistema che, privilegiando la vigile attesa e la somministrazione di farmaci inadeguati, ritarda quelle terapie che, se somministrate precocemente, darebbero a certe storie tragiche una direzione diversa, anche di guarigione.

Ieri nel corso dei venerdì della Bussola abbiamo raccontato una di queste storie di abbandono terapeutico nel corso di una puntata dedicata al covid at home col dottor Andrea Mangiagalli, creatore della rete di medici in prima linea per la cura precoce del covid.

Il signor Mario Marcon (in foto), della provincia di Como, era uno stimato falconiere. Amante della montagna, conosciuto da tutti in paese per il suo impegno nelle guardie ecologiche volontarie, non aveva patologie particolari quando ha accusato i primi sintomi, ma dopo pochi giorni la sua vita è cambiata e a 80 anni ha dovuto lasciare i suoi cari dopo giorni di ritardo terapeutico.

A raccontare alla Bussola la sua storia è la figlia Silvia Marcon, che lo ha seguito fin dove glielo hanno consentito, ma che non lo ha neppure potuto salutare e seppellire degnamente.

«I primi sintomi covid iniziano lunedì 11 gennaio – racconta Silvia alla Bussola ancora commossa -: mal di testa persistente, sudorazione e una marcata inappetenza. Il mercoledì si reca dal medico che gli dice di tornare la settimana seguente senza prescrivergli nulla, neppure il tampone».

Ma alla domenica inizia a comparire la febbre e si reca a effettuare un tampone rapido: positivo.

Il lunedì seguente Mario contatta il suo medico, ma non riesce a parlargli: «Riceve le telefonate dalle 7.30 alle 8.30 – prosegue la figlia –, ma in quel lasso di tempo non riesce a trovare la linea libera. Decide così di chiamare l’Asl e soltanto alle 8 di sera aggancia una guardia medica di turno, che non può fare altro che prescrivergli Tachipirina, pur sapendo che era positivo».

L’indomani, Mario riesce finalmente a parlare col medico e soltanto il martedì inizia una terapia covid a base di antibiotico, eparina e cortisone. «Ma la saturazione è a 95 e per giunta non viene nemmeno visitato. Dopo alcuni giorni, chiedo io stessa al medico di poterlo visitare, ma mi dice che non può. Allora insisto domandandogli di attivare una USCA. La risposta mi lascia di sasso: “Ne ho sentito parlare, ma non le ho mai attivate, se vuole proviamo e vediamo se funzionano”».

Il giorno dopo a casa di Mario arriva finalmente il medico della USCA precedentemente attivato. La saturazione dell’uomo è scesa ancora, è a 92, il dottore gli ascolta i polmoni e non commenta, ma gli prescrive una terapia a base di ossigeno. E qui, per Mario, che già ha iniziato in ritardo le terapie per contrastare il covid, inizia il secondo tempo dell’abbandono terapeutico che lo porterà di lì a pochi giorni a morire.

«La prescrizione della USCA per l’ossigeno da ritirare in farmacia è scarsa, la bombola è piccola – insiste nel racconto Silvia -. La farmacista mi spiega che il medico di base deve fare una ricetta diversa per poter avere la fornitura completa di ossigeno a domicilio». Il medico di base «che in quei giorni non si è mai fatto vivo» dice non sapere di dover fare quella prescrizione. Silvia viene così rimpallata diverse volte dalla USCA al medico di famiglia, che nel frattempo non riesce più a contattare. Ma la prescrizione giusta non arriverà mai. 

Tra il 19 e il 21 gennaio, Mario riceve pochissimo ossigeno perché il servizio di ossigeno a domicilio non è ancora stato attivato correttamente a causa della mancanza della ricetta. Nella notte del 22 gennaio, la saturazione scende a 87 e Mario verso le 2 e 30 termina l’ossigeno. «In preda al panico chiamo il 112 che arriva dopo poco». All’arrivo dei sanitari finalmente gli somministrano l’ossigeno, ma la saturazione è già a 82, si parte per l’ospedale, dal quale Mario uscirà soltanto dopo tre settimane di sofferenza e chiuso nella bara.

«Nel corso di quelle tre settimane, papà ha tenuto sempre il casco, non potevano fargli neppure la tac per evitare di staccarlo dalla respirazione artificiale. È morto il 14 febbraio, poco prima mi avevano telefonato dall’ospedale per dirmi che i suoi valori erano terminali».

Oggi Silvia non è arrabbiata, ma non riesce a darci pace: «Ci sono stati ritardi nella diagnosi inziale del covid e poi ritardi ulteriori nella somministrazione adeguata dell’ossigeno». Ma ciò che più la addolora è l’abbandono nel quale è stato lasciato il pover’uomo nelle fasi iniziali e con lui la figlia e la moglie: «La gestione di questa prova è stata lasciata tutta a noi famigliari, noi vedevamo che le cose peggioravano e ci sentivamo impotenti. Non accuso nessuno, sia chiaro, men che meno i medici, anzi quelli dell’ospedale sono stati eccezionali, ma non posso dire che papà sia stato accompagnato a morire dignitosamente e che si sia fatto di tutto per affrontare la malattia». Ancor oggi, infatti, la donna non è riuscita a ritirare i suoi effetti personali lasciati in quarantena in ospedale. «Non abbiamo neanche potuto vederlo nella bara, lo hanno sigillato e lo abbiamo portato al cimitero. Siamo stati abbandonati».

Quello di Marcon è un caso limite, che ha portato a un esito infausto. Però nella sua storia possono ritrovarsi tanti pazienti covid che hanno subito un abbandono terapeutico più o meno grave: visite mai fatte, diagnosi assenti, terapie insufficienti, disguidi burocratici e impossibilità a essere seguiti adeguatamente. Il primo passo è riformare le linee guida e i protocolli. 

2/CONTINUA  

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