Asia Bibi assolta o no? Partito islamico minaccia i giudici
Se Asia Bibi dovesse essere liberata, ai giudici spetterà una “fine orribile”. Lo promette il Tehreek-e-Labaik, il partito radicale islamico del Pakistan, che oggi protesterà per le strade e per le piazze chiedendo a gran voce l’impiccagione della donna cristiana “blasfema”. I giudici della Corte Suprema hanno già deciso il destino di questa donna cristiana, madre di famiglia, in carcere da 9 anni per un’accusa di blasfemia, condannata a morte in primo grado nel 2010. Ma non hanno pubblicato il verdetto, per timore di disordini gravi. Ebbene, anche a verdetto non pubblicato, nel dubbio, i radicali islamici si preparano ad uccidere.
Se Asia Bibi dovesse essere liberata, ai giudici spetterà una “fine orribile”. Lo promette il Tehreek-e-Labaik, il partito radicale islamico del Pakistan, che oggi protesterà per le strade e per le piazze chiedendo a gran voce l’impiccagione della donna cristiana “blasfema”. La sentenza è stata spiccata, ma è tuttora segreta, da quattro giorni. I giudici della Corte Suprema hanno già deciso il destino di questa donna cristiana, madre di famiglia, in carcere da 9 anni per un’accusa di blasfemia, condannata a morte in primo grado nel 2010. Ma non hanno pubblicato il verdetto, per timore di disordini gravi. Ebbene, anche a verdetto non pubblicato, senza sapere se sia una conferma della condanna a morte o un’assoluzione, nel dubbio, i radicali islamici si preparano ad uccidere.
I radicali islamici di Tehreek-e-Labaik Pakistan non hanno inviato ai giudici la loro minaccia con metodi clandestini, celando la loro identità. Tutt’altro. L’hanno annunciata pubblicamente in una conferenza stampa, diffusa anche su YouTube. Tehreek-e-Labaik Pakistan è una formazione politica considerata prossima al movimento armato dei Talebani. Si è formata nel 2017, in vista delle ultime elezioni, come espressione politica del movimento di protesta, di piazza, contro l’impiccagione (nel 2016) di Mumtaz Qadri, l’uomo che uccise Salmaan Taseer, il governatore del Punjab. La storia dell’impiccagione di Qadri è legata a doppio spago a quella di Asia Bibi. Qadri infatti era la guardia del corpo del governatore del Punjab, quando questi si disse favorevole a intercedere presso il presidente per concedere la grazia alla donna cristiana condannata. La guardia del corpo, il 4 gennaio 2011, quando il governatore era al mercato Kohsar di Islamabad, invece di proteggerlo gli sparò a bruciapelo 28 colpi di pistola, poi si fece arrestare senza opporre resistenza. Condannato a morte, divenne da subito un idolo per i radicali islamici nel paese. Nel 2014, una nuova moschea di Islamabad gli venne dedicata. Nonostante tutto, venne impiccato il 1 marzo 2016. Al suo funerale presenziarono almeno 100mila pakistani. Come rappresaglia, contro i cristiani, il 27 marzo 2016 un attentatore suicida si fece esplodere in un parco di Lahore, uccidendo 75 persone che festeggiavano la Pasqua in famiglia. È in questo clima di terrore che è nato il Tehreek-e-Labaik Pakistan, come partito che si oppone, con la forza, a qualsivoglia tentativo di riformare la legge sulla blasfemia o di concessione di maggiori diritti alle minoranze.
Tehreek-e-Labaik Pakistan non è neppure l’unico gruppo che minaccia violenze nel caso Asia Bibi venga liberata. Un altro è quello della Moschea Rossa di Islamabad, dal nome della moschea radicale islamica che fu epicentro di una sanguinosa insurrezione, duramente repressa. Dal 3 all’11 luglio 2007 venne assediata dalle truppe regolari e la battaglia fra gli studenti coranici e i militari si concluse con la morte di 84 insorti e 11 soldati. I radicali islamici che ora conducono la lotta politica dedicandola alla loro memoria, promettono che Asia Bibi non uscirà mai (viva) dal paese. Assicurano che la uccideranno prima, se mai non venisse impiccata. “Le forze occidentali stanno cercando di far uscire Asia Bibi dal Paese. Ma sarà impiccata”. O da un boia di Stato, oppure, si intende fra le righe, dai loro miliziani, al di fuori della legge.
Per questo e altri seri motivi, la Corte Suprema ha deciso di tenere segreto il verdetto, finché i tempi non saranno maturi. Già la sola decisione di tenere l’udienza è stata considerata “storica” da osservatori e attivisti per i diritti umani. Il 13 ottobre 2016, infatti, la Corte Suprema aveva rimandato il tutto a data da destinarsi, dopo che uno dei tre giudici, Iqbal Hameed-ur-Rehman, aveva rinunciato all’ultimo minuto di far parte del collegio giudicante. Anche in questo caso, ricorre sempre il destino di Mumtaz Qadri: Rehman era uno dei giudici che avevano partecipato al processo Qadri, dunque si considerava “non sufficientemente imparziale” per partecipare anche al processo di ultimo appello per Asia Bibi. Scelta contestata, comunque, sia da avvocati che da esperti di legge che fanno notare come Rehman, sottraendosi al suo incarico, per di più senza un congruo preavviso, abbia violato il Codice di condotta dei giudici della Corte Suprema. In pratica, in molti hanno sospettato che il giudice si sia sfilato in tempo per evitare conseguenze peggiori. E le minacce di questi giorni lo confermano. Ecco perché la sentenza dell’8 ottobre scorso, benché ancora segreta, è già un passo avanti notevole.
Il caso Asia Bibi è “è il classico esempio di false accuse in un Paese che vuole colpire le donne cristiane povere. Tanti attivisti chiedono giustizia e, allo stesso tempo, numerosi estremisti si esprimono contro di lei senza nemmeno conoscere la vicenda”, dice Zafar Iqbal, attivista per i diritti umani, all’agenzia missionaria Asia News. Avvertendo che, in caso di scarcerazione, “Deve essere mandata all’estero se vuole un futuro”. Secondo l’avvocato Bilal Warraich, il processo di Asia Bibi è un “monumentale caso di come funziona il sistema giudiziario nel Paese. La vera questione è se ci sarà mai sicurezza per lei in Pakistan: io credo che la vita di persone innocenti sarà sempre sotto costante minaccia, fino a quando il Parlamento non deciderà di cambiare la legge approvata dal generale Zia-ul-Haq”. Oggi le piazze radicali islamiche faranno sentire la loro potente voce contro ogni ipotesi di riforma.