AUTORI DEL '900/D'ANNUNZIO
Il piacere disperato di un vate triste
L'edonismo ossessivo dello scrittore abruzzese che inveiva contro Cristo perdendosi in una solitudine senza speranza.
Culture
24_09_2011
Gabriele Rapagnetta, in arte D’Annunzio (1863-1938) dal cognome dello zio Antonio, è la figura che meglio rappresenta il clima culturale dell’Italia tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. È il personaggio più citato, che maggiormente compare sulle riviste, di cui si parla nel bene e nel male, per gli scandali, per le imprese (la beffa di Buccari, il volantinaggio su Vienna, Fiume), per gli arditi romanzi in cui racconta le proprie storie sentimentali, per le spese folli senza le quali non potrebbe condurre una vita quasi principesca, ma che gli provocano debiti tali che per alcuni anni deve lasciare l’Italia.
Figura eclettica e, al contempo, eccentrica, poliedrica e versata in diversi campi, poeta, drammaturgo e romanziere, pubblicista e sceneggiatore, abile self promoter, è lui l’artista con cui tutti i contemporanei si devono confrontare, sia che lo amino e cerchino di imitarlo sia che lo osteggino e lo avversino apertamente. D’Annunzio deve essere «attraversato», capito, superato, parodiato, come ha ben compreso Montale, che, trent’anni più giovane, lo identifica come idolo polemico tra i poeti laureati de «I limoni» nella prima raccolta Ossi di seppia (1925), ma ancora nella quarta raccolta, Satura (1971), ormai anziano, fa memoria del poeta pescarese, morto da alcuni decenni, e fa la parodia de «La pioggia nel pineto» nel suo componimento «Piove». Come per processo osmotico D’annunzio recepisce a suo modo, è bene dirlo, le molteplici sollecitazioni letterarie, culturali e filosofiche del periodo in cui vive. Sarà lui ad aprire la stagione del Decadentismo esteta in Italia con il romanzo Il piacere (1889), che risente dell’influenza del padre dell’Estetismo, quel Huysmans che scrisse A ritroso.
Emblema di una visione edonistica della vita, raffinato e alla ricerca di nuove sensazioni, il protagonista Andrea Sperelli crede che si debbano assaporare i piaceri della vita, senza alcuna responsabilità e vincolo relazionale. Si inganna, come lui stesso comprenderà presto, quando si renderà conto di essere catturato proprio dalla donna con cui è terminata la relazione. La stessa trama del romanzo rivela il fallimento dell’etica del piacere. Se amore e piacere coincidono, ha ragione D’Annunzio a scrivere in una delle sue poesie più note, «La pioggia nel pineto», dedicata all’amata Eleonora Duse: «Piove […]/ su la favola bella/ che ieri/ m’illuse, che oggi t’illude,/ o Ermione». Anche le storie più importanti sono favole belle, illusioni che possono persistere solo per il tempo in cui perdura la soddisfazione del piacere.
Sarà D’Annunzio a rendere per primo celebre il Verbo niciano in Italia, dopo aver letto Nietzsche tra il 1892 e il 1893. Una rilettura molto riduttiva che tenderà a presentare il nuovo superuomo in una chiave personalistica. L’insuccesso e il successo sono due facce della stessa medaglia dell’inettitudine contemporanea, un’inettitudine che proviene proprio dal fatto che i personaggi non hanno più un fondamento su cui consistere, un ubi consistam. La loro stima scaturisce, così, solo dall’esito delle loro azioni. I personaggi dannunziani inseguono disperatamente la riuscita nella vita, in qualsiasi ambito, dall’arte alla conquista sentimentale fino all’impresa sportiva. L’universo romanzesco di D’Annunzio si popola di superuomini che interpretano le passioni di quel poeta che è stato anche romanziere, pilota, soldato, politico, conquistatore di donne.
Nelle Vergini delle rocce Claudio Cantelmo vorrebbe il ritorno ad un’élite intellettuale e politica contro la plebaglia democratica e incolta e deve scegliere per moglie una delle tre figlie del principe Capece Montaga. Il discendente proveniente da questa unione sarà il superuomo, colui che ridarà lustro ai fasti antichi dell’Italia, l’eletto a custodire la bellezza dal deturpamento e dalla rozzezza contemporanei. Questo è l’ufficio programmatico degli ultimi custodi della bellezza: «Difendete la Bellezza! È questo il vostro unico officio. […] Bollate voi sino all’osso le stupide fronti di coloro che vorrebbero mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale e fare le teste umane tutte simili come le teste dei chiodi sotto la percussione dei chiodaiuoli […]. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo». D’Annunzio inveisce contro l’omologazione, proprio lui che, proponendosi come l’inimitabile, è coscientemente e volontariamente promotore di atteggiamenti eccentrici che fungano da modello per il potente ceto borghese.
Le prerogative del nuovo capo d’Italia, del superuomo figlio di Claudio Cantelmo, corifeo del Verbo, «nuovo Messia in terra», saranno forza, violenza e disciplina. L’interprete della nuova stagione dannunziano - superomistica compendia la presunta superiorità di gusto culturale ed estetico con il fascino di colui che sperimenta sempre nuovi campi imponendosi con l’eccellenza. Nel Fuoco Stelio Effrena è l’esteta che vuole generare un nuovo genere artistico dalla commistione di musica, danza e poesia. Morto il grande musicista tedesco Richard Wagner, durante il funerale aiuterà a portare la sua bara ereditandone in maniera simbolica il testimone, ma fallirà. In Forse che sì forse che no Paolo Tarsis, l’unico personaggio dannunziano che riesce nell’impresa progettata (la traversata del Mar Tirreno), presenta già nel nome un’evidente parodia di san Paolo di Tarso. L’aviatore appare per molti tratti più come una reviviscenza dell’homo divus rinascimentale che si deve affermare in un ambito piuttosto che un’attualizzazione del superuomo niciano.
Pressoché negli stessi anni in cui legge Nietzsche D’Annunzio sente persino il fascino del grande romanziere russo Dostoevskij, i cui echi si sentono nell’Innocente o in Giovanni episcopo. La produzione del russo, però, offre spunti per le trame e suggestioni per le atmosfere dei romanzi piuttosto che provocare un suo profondo ripensamento sull’esistenza.
Organico al potere tanto quanto Carducci, anche se mascherato sotto i panni di un finto innovatore, elitario e antiborghese (quando lui stesso è, invece, rappresentante privilegiato del ceto), D’Annunzio prosegue l’irridente sberleffo al Crocefisso di cui si era reso interprete pochi decenni prima lo stesso Carducci nell’«Inno a satana». D’Annunzio ha sempre deliberatamente contrapposto la propria brama di affermazione narcisistica al Verbo incarnato, Cristo. La parodia ha spesso accompagnato la produzione dannunziana in maniera ostentatamente provocatoria e mordace. Si pensi, ad esempio, nel Piacere alle descrizioni delle camere da letto in cui si congiungono i corpi dei due amanti adulterini. In maniera antifrastica e irrisoria una raffigurazione artistica dell’«Annunciazione» campeggia sulle lenzuola: la castità della Madonna si configura come appetitoso antipasto al connubio carnale peccaminoso.
I richiami sacrali percorrono in maniera ossessiva non solo i romanzi, ma anche le poesie e lo stesso luogo che D’Annunzio scelse come suo ultimo soggiorno, il Vittoriale degli italiani. All’amico architetto Maroni che gli porge gli auguri di buona Pasqua, D’Annunzio risponde: «Non augurarmi buona Pasqua, perché da Cristo è stato menomato il mondo». È un giudizio che nasce dalla convinzione che Gesù abbia tolto all’uomo il piacere e la vitalità. D’Annunzio, che non ha creduto in Lui, nel centuplo quaggiù e nell’eternità, conclude gli ultimi anni nella solitudine e nella tristezza.