L'AVVENTURA DEL VIAGGIO/13

Il monologo del Conte Ugolino

Nell'ultimo cerchio Dante incontra i traditori nei confronti della patria, degli ospiti dei parenti e dei benefattori. In particolare si imbatte nel Conte Ugolino, la cui tragedia viene raccontata dallo stesso in cinque atti. 

Culture 01_09_2013
Dante incontra il Conte Ugolino

L’ultimo cerchio è quello dei traditori nei confronti della patria, degli ospiti, dei parenti e dei benefattori. Non il fuoco, ma il ghiaccio rappresenta icasticamente la pena comminata a quanti, a causa del tradimento, hanno perso il loro stesso calore vitale, hanno violato la stessa natura umana, sono così cosificati, reificati, immersi nel ghiaccio come se fossero «festuca in vetro». 

Ad un certo punto Dante vede «due ghiacciati in una buca,/ sì che l’un capo a l’altro era cappello;/ e come ‘l pan per fame si manduca,/ così ‘l sovran li denti a l’altro pose/ là ‘ve ‘l cervel s’aggiunge con la nuca». Un forte desiderio di vendetta anima questo dannato, paragonata a quel Tideo della Tebaide di Stazio, che, una volta colpito a morte da Menalippo, riuscì a trafiggerlo e a ucciderlo e chiese, prima di morire, la testa del nemico per roderla.

I due dannati sono il Conte Ugolino della Gherardesca e l’Arcivescovo Ruggeri. La storia è peraltro assai nota, anche se non certa e soggetta a molteplici versioni. Siamo nella Pisa della seconda metà del Duecento. Il Conte Ugolino, personaggio di spicco della politica pisana, momentaneamente lontano dalla città e accusato da taluni di aver venduto dei castelli pisani alla Sardegna, viene richiamato in patria a tradimento dall’arcivescovo Ruggeri, suo avversario politico, con il pretesto di trovare un accordo. In realtà, viene rinchiuso nella torre della Muda assieme a due figli e a due nipoti già grandi che moriranno ad uno ad uno per fame. In estrema sintesi questa è una delle possibili ricostruzioni storiche.

La poesia, però, come ricorda Manzoni, ha il compito di far dire quello che la storia non dice, di entrare nel cuore dei personaggi. Nel racconto di Dante la poesia ha anche la funzione di persuadere il lettore avvinghiandolo nelle morse del pathos e della emotività. Per ottenere con più successo questo risultato Dante modifica due dati elementari del racconto: in primis i coprotagonisti della tragedia della Torre della Muda diventano tutti figli del Conte Ugolino, in secondo luogo non sono adulti, come nella storia reale, ma bambini. L’effetto prodotto è forte, perché il lettore coglie nelle vicende un’ingiustizia e una violenza ancor più biasimevoli. Il monologo del Conte Ugolino può essere considerato una tragedia costituita da un prologo e da cinque atti. 

Il prologo alla tragedia è ben costruito su sapienti richiami letterari. La vicenda di Enea e Didone (Eneide II libro) è presente nell’allusione: «Tu vuo' ch'io rinovelli/ disperato dolor che 'l cor mi preme/ già pur pensando, pria ch'io ne favelli». Sono le parole con cui Enea esordisce prima di raccontare, su suggerimento della regina cartaginese in un lungo flashback, le vicende che lo hanno condotto fin sulle coste africane dalla città di Troia. Dante auctor riprende, poi, la sua stessa Commedia alludendo alla vicenda di Paolo e Francesca, un’altra tragedia: «Se le mie parole esser dien seme/ che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,/ parlare e lagrimar vedrai insieme».  A quale bestialità porta l’istinto di vendetta, trascinato dal quale il Conte Ugolino racconta a Dante gli ultimi giorni della sua vita.

Il Conte non vuole raccontare i preamboli che hanno condotto alla loro morte, ricorda solo succintamente, come nel prologo di una tragedia, quanto a tutti dovrebbe essere noto: «Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,/ fidandomi di lui, io fossi preso/ e poscia morto, dir non è mestieri». Il racconto si soffermerà su quanto nessuno conosce, gli ultimi giorni trascorsi là all’interno della torre, proprio come nella storia di Ulisse, in cui l’attenzione è tutta focalizzata sull’ultimo viaggio e sulla morte ivi trovata dall’eroe greco e dai suoi compagni. Dopo aver trascorso alcuni mesi nella torre della muda, che verrà ribattezzata torre della fame, il Conte Ugolino fa un sogno che gli avrebbe squarciato il velo del futuro. 

Il sogno costituisce il primo atto della tragedia. Una battuta di caccia su un monte, un lupo e dei lupicini inseguiti dall’Arcivescovo Ruggeri, da alcune famiglie nobili e da «cagne magre, studiose e conte». In maniera realistica il lupo e i cuccioli si rivelano poi un padre con i figli. Il Conte si sveglia quando viene azzannato sui fianchi. Come in un incubo il risveglio avviene al momento  di maggior tensione. Secondo atto. Al risveglio tutti si aspettano l’arrivo del cibo, ma, invece, viene chiuso con i chiodi l’uscio della Torre, segno anticipatore di quale sarebbe stato il destino dei prigionieri. Il padre perde addirittura le parole e Anselmuccio gli chiede: «Tu guardi sì, padre! che hai?».

Terzo atto, secondo giorno. Il padre si rode le mani. I figli, pensando che lo faccia per fame, gli dicono: «Padre, assai ci fia men doglia/ se tu mangi di noi: tu ne vestisti/ queste misere carni, e tu le spoglia». Quarto atto. Si giunge al quarto giorno. Gaddo si getta ai piedi del padre implorandolo: «Padre mio, ché non mi aiuti?». Non c’è tragedia più grande che veder morire i propri figli senza poter far nulla. 

Quinto e ultimo atto. Il padre, dopo aver visto morire gli altri tre figli tra il quinto e il sesto giorno, ormai cieco brancola sui loro corpi per due giorni. «Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno». Il verso tombale, che chiude la tragedia, si presta a due possibili interpretazioni. La vexata quaestio sul suo reale significato credo che sia irrisolvibile, proprio per il fatto che Dante ha voluto giocare sull’ambiguità delle parole: il Conte Ugolino è morto per fame più che per il dolore; nel contempo, la fame ha trionfato sull’amore paterno e il Conte si è nutrito della carne dei figliuoli. Del resto i segni della possibile antropofagia del conte all’interno del canto sono innumerevoli, a partire proprio dalla pena che gli è stata comminata («La bocca sollevò dal fiero pasto/ quel peccator, forbendola a'capelli/ del capo ch'elli avea di retro guasto»).

Finito il racconto, il peccatore «con li occhi torti/ riprese 'l teschio misero co'denti,/ che furo a l'osso, come d'un can, forti». Il Conte ritorna al suo desiderio di vendetta, quello stesso che vive spesso l’uomo sulla Terra. Dante auctor ci mostra come anche lui, durante il suo viaggio ultraterreno, si sia lasciato andare all’istinto di vendetta. Vedendo nella palude Stigia tra gli iracondi quel Filippo Argenti che in vita lo aveva schiaffeggiato (così raccontano almeno gli aneddoti dell’epoca), Dante auspica  una cattiva sorte per il rivale dicendo: «Maestro, molto sarei vago/ di vederlo attuffare in questa broda/ prima che noi uscissimo del lago». 

Dopo aver parlato con il Conte Ugolino Dante riprenderà il viaggio camminando sul Lago Cocito finché vedrà conficcato in mezzo alla distesa ghiacciata colui che è l’origine di tutti i mali, Lucifero. Di questo parleremo nell’ultima puntata dell’avventura del viaggio la settimana prossima.