Grillo, assalto alla Costituzione
Il timore di essere tradito dai suoi parlamentari, spinge Beppe Grillo a chiedere una modifica del'art. 67 della Costituzione, per introdurre il vincolo di mandato. Ma sarebbe davvero preoccupante, perché l'articolo 67 garantisce la libertà e l'autonomia dei politici. Parla Marco Olivetti, ordinario di Diritto Costituzionale a Foggia.
Chiamatela “sindrome Scilipoti”, o più semplicemente paura del tradimento, ma la musica non cambia. Beppe Grillo, il vero vincitore delle ultime elezioni, in questi giorni è ossessionato dall’ipotesi che i neodeputati e i neosenatori grillini possano cambiare casacca alla prima occasione («ho già messo in conto che il 15% di voi lo farà»). Non a caso gli onorevoli a 5 stelle sono già stati catechizzati a dovere sui rischi del potere, sulle tentazioni dei Palazzi romani e, implicitamente, sul trattamento mediatico-virale che spetta a chi si dovesse vendere al “nemico” (Federica Salsi docet).
Ma al comico genovese tutto questo sembra non bastare e si è spinto fino a ipotizzare l’introduzione del vincolo di mandato (in pratica gli eletti devono conformarsi alla volontà degli elettori, da cui dipendono direttamente), attraverso il cambiamento dell’articolo 67 della Costituzione («ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»). Un’ipotesi rivoluzionaria e non esente da rischi.
«Si creerebbe di fatto un’autorità superiore – spiega alla Nuova Bussola Quotidiana il Prof. Marco Olivetti, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Foggia –, in grado di richiamare all’obbedienza il deputato dissidente e capace, all’occorrenza, di farlo decadere. Sarebbe paradossale se, come nel caso di Grillo, questa figura non si è nemmeno misurata con il consenso. E in ogni caso, un cambiamento di questo tipo necessiterebbe di ulteriori garanzie sul piano della democrazia interna ai partiti per evitare rischi autoritari».
C’era quindi una ratio ben precisa quando i Padri costituenti hanno scritto l’art. 67?
Certamente, anche se è giusto sottolineare che non si tratta di una peculiarità della nostra Carta costituzionale, ma risale alla tradizione del parlamentarismo inglese. Oggi l’assenza del vincolo di mandato è comune a tutte le democrazie rappresentative.
L’antenato ultimo potrebbe essere il discorso di Burke agli elettori di Bristol del 1774: il compito del parlamentare è quello di interpretare liberamente, secondo la sua coscienza, quelli che a suo avviso sono gli interessi della nazione. Senza vincoli con gli elettori.
Concetti di cui probabilmente i neoeletti “cittadini a 5 stelle” non sono a conoscenza.
Bisogna dire che con l’avvento dei partiti moderni, novecenteschi e organizzati, i parlamenti si sono comunque evoluti. La disciplina di partito ha iniziato a esistere di fatto, ma questa è rimasta comunque bilanciata da quella libertà di diritto di cui parlavamo prima.
Anche nel nostro caso i partiti sono costituzionalmente riconosciuti, ma non si arriva certo al punto di fare di queste forze organizzate i “signori”, dal punto di vista giuridico, che hanno potere assoluto sugli eletti. Il Parlamento italiano resta un Parlamento di deputati, non dimentichiamolo.
Se guardiamo al di fuori dei nostri confini delle eccezioni ci sono state, tra l’altro molto indicative.
A cosa si riferisce?
Al sistema sovietico dove il regime di partito, tra l’altro unico, arrivava alle estreme conseguenze e il vincolo di mandato era funzionale al controllo degli eventuali dissidenti.
Se i rischi connessi a una riforma come quella invocata dal leader del Movimento 5 Stelle sono chiari, il problema degli onorevoli transfughi come si risolve?
A mio avviso servirebbero delle misure di carattere finanziario e organizzativo per contenere il fenomeno.
Si potrebbe, ad esempio, vietare il passaggio da un gruppo all’altro dei deputati e dei senatori, obbligando chi cambia casacca a entrare nel “gruppo misto”. E non credo che ci siano controindicazioni a penalizzare chi fa queste scelte con delle sanzioni o con una limitazione delle strutture di supporto, anche economiche, per la loro azione politica.
Per chiudere un parere più generale: condivide l’opinione di chi segnala per la prossima legislatura un’emergenza costituzionale e istituzionale, come se, una volta lasciata alle spalle la questione economica, la priorità del Paese sia diventata la riforma delle istituzioni e il cambiamento di alcuni articoli della Costituzione?
A me sembra che l’emergenza sia ancora una volta politica. Ovvero, a meno che non si voglia cambiare radicalmente sistema, andando nella direzione di un modello presidenziale (Francia e Cipro restano comunque delle eccezioni), potrebbero bastare dei ritocchi importanti, sul piano della legge elettorale e su quello delle regole della politica, a partire dal finanziamento dei partiti.
Certo, oggi la priorità sembra, forse anche sull’onda del populismo, il dimezzamento del numero dei parlamentari. Se si vuole rispondere in questo modo alla domanda di cambiamento lo si faccia, ma in maniera intelligente.
Cosa intende dire?
Non è tagliando a metà le due camere che si risolvono i problemi. Avrebbe più senso rendere il Senato la Camera delle autonomie, con un massimo di 80 senatori. La Camera dei deputati invece si potrebbe ridurre, senza esagerazioni, portando a 500 il numero dei suoi membri.
In questo modo si andrebbe a toccare la vera anomalia italiana, che ci accomuna soltanto alla Romania: il bicameralismo perfetto. Non a caso è ciò su cui si è bloccato il Paese all’indomani delle elezioni, alla ricerca di una fiducia nelle due camere, al momento impossibile.
(a cura di Rinaldo Pozzi)