IL PUNTO SUL COVID

Cure e medici: si doveva dare libertà, non criminalizzare

Piuttosto che interferire con le attività cliniche, il sistema sanitario avrebbe dovuto lasciare piena libertà ai medici di consigliare sani stili di vita e prescrivere in scienza e coscienza i farmaci. Invece sono stati ostacolati e ora vengono anche indagati come nel caso del medico accusato di omicidio colposo per aver curato. Eppure, intere schiere di malati sono state abbandonate senza assistenza e si sono rivolte a liste di medici resisi disponibili per via telematica, cosa del tutto lecita in caso di emergenza. Gli errori accertati della vigile attesa con paracetamolo. E il progresso sulla cura del paziente covid.  

Attualità 16_10_2021

Scontri anche sulle terapie? La questione delle cure del COVID-19 si sta rivelando un nuovo terreno di scontro tra diverse fazioni “pro-vax” e “pro-cure”. Da una parte e dall’altra si tende a considerare le cure come alternative ai vaccini e viceversa, il che è un assurdo dal punto di vista medico-scientifico. È veramente assurdo e controproducente mettere in contrasto la prevenzione (che si può fare in vari modi e non solo coi vaccini) con la terapia, che è ovviamente utile quando la prevenzione non funziona. Le scelte di salute dovrebbero essere basate innanzitutto su criteri scientifici ed etici, non su forzature ideologiche, politiche o provvedimenti coercitivi verso i medici e la popolazione.

PAZIENTI ABBANDONATI
È di questi giorni la notizia di un medico iscritto nel registro degli indagati con le accuse di omissione di soccorso e omicidio colposo in relazione alla morte di un 68enne deceduto di Covid-19 la scorsa settimana dopo essersi sottoposto alle “cure domiciliari”. A prescindere dal singolo caso su cui indaga la magistratura, si tratta di un caso molto grave, perché rappresenta indubbiamente una forma di minaccia per la libertà di prescrizione dei farmaci da parte del medico.

Pare persino ovvio ricordare che il medico è libero di prescrivere in scienza e coscienza i medicinali che ritiene più opportuni, oppure di non prescrivere nulla se ritiene non necessario. Altrettanto ovvio sembrerebbe il fatto che i farmaci non funzionano sempre e in tutti i pazienti e che se un paziente affetto da una malattia grave muore nonostante i farmaci ciò non può ritenersi motivo valido per incriminare il medico che li ha prescritti.

Infine, è noto a tutti che per lunghi mesi innumerevoli schiere di persone malate sono state lasciate sole a casa senza assistenza e che è ben per quello che i malati hanno dovuto ricorrere alle liste di medici resi disponibili per seguirli mediante le cosiddette “terapie domiciliari” anche per via telematica, cosa del tutto lecita in caso di emergenza.

LA VIGILE ATTESA
A fronte della seconda ondata italiana, il Ministero della Salute e l’AIFA con una nota del 9 dicembre 2020 raccomandavano, in sostanza, “vigile attesa” e somministrazione di paracetamolo (ai più noto come Tachipirina, per intenderci). Anche per difficoltà organizzative della medicina di base, il concetto di vigile attesa si è ridotto presto in quello di far misurare la saturazione di ossigeno e attendere la guarigione spontanea o il peggioramento clinico, il che obbligava al ricovero del paziente.

Forti delle loro esperienze sul campo e delle richieste che arrivavano dai pazienti tramite la rete, i medici delle “terapie domiciliari” dell'avvocato Erich Grimaldi si sono opposti alle linee AIFA e hanno ottenuto ragione dal TAR del Lazio che il 2 marzo 2021 ha riconosciuto ai medici il “diritto/dovere, avente giuridica rilevanza sia in sede civile che penale, di prescrivere i farmaci che essi ritengono più opportuni secondo scienza e coscienza, e che non può essere compresso nell’ottica di una attesa, potenzialmente pregiudizievole sia per il paziente che, sebbene sotto profili diversi, per i medici stessi”.

Tuttavia, inspiegabilmente il Ministro della Salute ha ricorso contro tale sentenza al Consiglio di Stato, il quale il 22 aprile 2021 ha annullato il provvedimento del TAR. Il Ministero della Salute il 26 aprile 2021 ha così licenziato nuove indicazioni per la gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SarS-CoV-2, le quali non paiono superare in modo adeguato le criticità emerse in relazione alle precedenti raccomandazioni di AIFA: la vigile attesa con misurazione della saturazione è il metodo indicato almeno per i primi tre giorni della malattia in caso di sintomi non particolarmente gravi e il paracetamolo risulta ancora inserito nelle raccomandazioni dell’AIFA tra i farmaci raccomandati per la cura domiciliare. Eppure, si accumulano i dati che sconfessano totalmente questo farmaco per questa malattia.

DUBBI SUL PARACETAMOLO
Già nell’ottobre 2020 due ricercatori italiani pubblicarono su “Frontiers in Pharmacology” un articolo in cui evidenziano il rischio nell’uso del paracetamolo nel COVID-19, perché questo farmaco viene metabolizzato proprio attraverso il ciclo del glutatione e quindi una somministrazione eccessiva di paracetamolo potrebbe ridurre o “svuotare” le difese antiossidanti delle cellule, portando paradossalmente ad una maggiore suscettibilità al virus e quindi all’esacerbazione del COVID-19.

Recentemente è stato pubblicato un lavoro in “preprint” in cui sono stati confrontati protocolli terapeutici con paracetamolo con altri che al posto di paracetamolo utilizzavano indometacina, un comune antiinfiammatorio non steroideo. I pazienti che hanno ricevuto indometacina hanno avuto un sollievo sintomatico più rapido rispetto a quelli con paracetamolo, con la maggior parte dei sintomi scomparsi nella metà del tempo. Nel gruppo indometacina, nessuno dei pazienti ha sviluppato desaturazione di ossigeno, mentre 20 dei 107 pazienti nel gruppo del paracetamolo hanno avuto desaturazione. Analoghi risultati sono stati riportati da uno studio appena pubblicato in “preprint” da ricercatori tra cui alcuni dell’Istituto di ricerche Mario Negri.

La raccomandazione terapeutica qui si basa sull’utilizzo di farmaci antinfiammatori non steroidei, in particolare sugli inibitori della cicloossigenasi-2 (COX-2). Il confronto è stato fatto con un gruppo di malati di COVID-19 della stessa gravità, trattati a casa in modo “tradizionale”, vale a dire con vari farmaci tra cui in massima parte paracetamolo. Solo uno dei 108 pazienti (0,9%) nel gruppo del trattamento "raccomandato" è stato ricoverato in ospedale, rispetto a 12 dei 108 pazienti (11,1%) nel gruppo di confronto in cui prevaleva l’uso del paracetamolo. La cosa fondamentale è che i trattamenti raccomandati dovrebbero iniziare immediatamente quando compaiono i primi sintomi di COVID-19, persino senza attendere i risultati di un tampone, se non è possibile farlo subito. In breve, basta cambiare un po’ la terapia e cominciarla presto, ecco che si passa da 11% a 1% di ricoveri in ospedale. Con ciò non significa che la terapia proposta sia già quella ottimale (nel protocollo mancano medicinali ad effetto antivirale e antiossidante), ma un bel passo in avanti è stato fatto.

COSA FARE?
Alla luce delle attuali conoscenze, sta apparendo sempre più evidente come la “vigile attesa” e la “Tachipirina” abbiano rappresentato strategie cliniche e farmacologiche del tutto inadeguate. Nella primavera scorsa un “tavolo tecnico” della Lega, di cui ho fatto parte come esperto indipendente, ha evidenziato la necessità che lo Stato e le Regioni coinvolgessero e valorizzassero ancora di più la medicina territoriale per incrementare e organizzare la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COV19, quale strumento indispensabile per contrastare detta patologia. In questo documento, che fu anche presentato al Senato in una conferenza stampa (https://www.sanitainformazione.it/salute/cure-domiciliari-covid-la-lega-rilancia-banca-dati-e-fondi-per-la-ricerca/), si legge fra l’altro che “è necessario che sia lasciata ai medici sul territorio la possibilità di attuare interventi che - considerando le prove scientifiche disponibili, la plausibilità biologica e la situazione particolare del paziente - si ritengano utili, in scienza e coscienza, ad alleviare le sofferenze e scongiurare le conseguenze potenzialmente gravi della malattia.” Nel documento sopra citato si segnala che, a tutela della libertà di scelta dei cittadini, si deve inoltre consentire l’utilizzo di medicine complementari da parte di medici e odontoiatri iscritti negli appositi registri ordinistici e nel rispetto dei principi della deontologia professionale.

QUALI FARMACI?
Alcuni farmaci ad oggi più utilizzati per la gestione dei pazienti con COVID-19 al domicilio sono: Vitamina D, laddove il medico ne ravvisi l’insufficiente apporto; N-acetilcisteina, o altri prodotti analoghi con proprietà di sostegno al metabolismo del glutatione e controllo dell’equilibrio redox cellulare; antiinfiammatori non steroidei tipo inibitori di COX-2, nimesulide, celecoxib, indometacina, aspirina a basse dosi; eparine a basso peso molecolare soprattutto nel caso di paziente allettato; idrossiclorochina e zinco, solo nelle primissime fasi della malattia a basso dosaggio e per un tempo limitato; corticosteroidi limitatamente ai soli casi di compromissione polmonare e desaturazione; antibiotici nel caso che il curante ritenga necessaria una copertura antibatterica; prebiotici soprattutto per le forme gastrointestinali privilegiando comunque la loro assunzione attraverso alimenti; ivermectina, un antiparassitario che negli studi clinici sta dando buoni risultati anche se non definitivi; anticorpi monoclonali, in casi particolari secondo le linee ufficiali.

Inutile dire che questi e altri possibili interventi terapeutici non possono essere considerati come un “fai da te” ma richiedono la valutazione medica. Inoltre, questi farmaci possono essere usati in associazioni tra loro e anche con specifici consigli sulla nutrizione (anche per un corretto apporto di vitamine e flavonoidi, senza escludere il ricorso a integrazioni ove necessario) e sullo stile di vita (es. esercizio fisico regolare, igiene, ecc.). È fondamentale ribadire che non si cura la “malattia” ma si cura la persona che è affetta dalla malattia, tenendo conto delle sue caratteristiche fisiopatologiche individuali, del suo ambiente e della sua storia. Per questo non sarà mai adeguato un intervento coercitivo dello Stato che obblighi a somministrare certi farmaci o vieti l’uso di altri.

PIENA LIBERTA' AI MEDICI
Piuttosto che interferire con le attività cliniche, comunque sperimentali in una fase di emergenza e in una nuova malattia come questa, coloro che gestiscono il sistema sanitario avrebbero dovuto lasciare piena libertà ai medici di consigliare sani stili di vita e prescrivere in scienza e coscienza farmaci, vitamine, minerali, integratori, complessi fitoterapici (molto usati in Cina), e via dicendo, anziché ostacolarli o addirittura vietarli.

Nel contempo, avrebbero potuto e dovuto rendere disponibile, agli stessi medici, una specifica cartellina clinica elettronica, con cui riferire l’andamento clinico dei malati da loro trattati con i vari farmaci e nelle associazioni più diverse. In tal modo, in pochi mesi si sarebbero raccolti migliaia di casi e sarebbe stato possibile fare dei confronti statistici multivariati, per avere indicazioni sulle terapie più promettenti. Poco o nulla di tutto questo è stato fatto e ancora non risulta sia fatto.

CURARE IL PAZIENTE NON IL COVID
In sintesi, tenuto conto delle conoscenze sinora raggiunte sulla patologia da virus SARS-CoV-2, appare evidente che sia fondamentale non solo attivare tempestivamente le cure necessarie, ma anche personalizzarle, tenendo conto delle peculiarità del paziente e della fase della malattia. Non esiste “LA” cura del COVID-19, ma la possibilità di prendere in cura i pazienti con COVID-19 in molti modi e di impedire la progressione verso l’aggravamento e la ospedalizzazione, se si interviene in tempo.

Molte volte anche il solo sentirsi assistiti e avere qualcuno su cui fare affidamento come consigli in caso di dubbi sul proprio stato di salute tranquillizza il malato e giova al decorso clinico. È auspicabile, che le esperienze terapeutiche in ambito domiciliare riferite ad alcuni farmaci indicati e alle loro associazioni, o anche ad altri che nel tempo potrebbero rivelarsi utili nel trattamento dei malati di COVID-19, siano oggetto di studi comparativi di alta validità, che possano valutarli e consentire progressivamente adeguate raccomandazioni per l’uso. Tutto all’opposto della tendenza attuale a ignorare o addirittura criminalizzare il grande patrimonio di esperienze e di conoscenze accumulato dai medici.

*Patologo generale