L’ASSEMBLEA SULL’AMAZZONIA

Sinodo, l’attacco al celibato è un problema di fede

Tre alti prelati (Hummes, Giovenale e Kräutler) intervengono a sostegno dell’ordinazione dei “viri probati” per sopperire alla mancanza di sacerdoti in Amazzonia. Un’ottica funzionalistica che ignora le parole di Gesù sul lasciare tutto per il Regno dei cieli e pregare il Signore perché «mandi operai per la sua messe». Che poi è il modo in cui la Chiesa ha affrontato più volte, nella storia, la carenza di presbiteri.
- BESTIARIO SINODALE: TALARE E INFANTICIDIdi Riccardo Cascioli
- IL DIARIO DEL SINODO, di Nico Spuntoni

Ecclesia 11_10_2019

«Grande ossessione mediatica per i viri probati», l’ha definita Paolo Ruffini, espressione di quel Sinodo parallelo «che esiste solo nelle elucubrazioni di un certo tam tam mediatico», prosegue Avvenire.

Sarà, ma sicuramente non è colpa degli occulti registi del Sinodo parallelo se in tre giorni di Sinodo ci sono stati tre interventi autorevoli favorevoli ai viri probati. Non è un problema mediatico se il cardinale Hummes, mica uno secondario, nel suo primo intervento al Sinodo ha auspicato che si possa aprire «la strada all’ordinazione sacerdotale degli uomini sposati residenti nelle comunità». E non è colpa dei giornalisti nemmeno se Vatican News dedica testo e video a monsignor Flavio Giovenale, vescovo di Cruzeiro do Sul, il quale ha avanzato «la proposta di rivedere i criteri per l’ordinazione in modo che ci possano anche essere persone sposate». Lo stesso Giovenale ricorda che «anche altri quattro padri sinodali prima di me ne hanno parlato, questo è un discorso che si faceva già quando io ero bambino, allora sta maturando. Ci sarebbero due possibilità: quella di preti celibatari e quella di preti sposati».

La proposta, manco a dirlo, non sarebbe rivoluzionaria, ma rispettosa della tradizione; con la precisazione però che «tradizione vuol dire anche andare avanti, come in una staffetta: uno porta il bastone e poi lo consegna all’altro, non è stare fermi». Strana staffetta quella in cui, mentre si corre, il bastone muta. «Quello sarebbe tradizionalismo o un museo! - continua Giovenale -. Invece la tradizione nella Chiesa vuol dire cambiare e andare sempre avanti». Idea che fa il paio con quest’altra: «I documenti sono importanti ma riflettono anche una tappa della Chiesa, della storia della Chiesa, ma poi possono anche cambiare ed evolvere». Praticamente i “documenti” della Chiesa sono come delle foto dell’album di famiglia: ci si siede insieme la sera, si sfoglia l’album e si dice: “Guarda come eravamo buffi trent’anni fa!”.

Con questa idea di tradizione che cambia, monsignor Giovenale porta avanti un’altra proposta molto creativa: «Un’altra idea è di avere pastori e pastore, come se fosse un diaconato non permanente, dato sia agli uomini sia alle donne, che possano celebrare il Battesimo, la Parola di Dio, non la confessione ma l’accoglienza, con un consiglio e la benedizione, e infine l’assistenza ai malati. Sappiamo che l’unzione dei malati è propria dei preti, però anche i laici potrebbero dare un’unzione, una benedizione che non sia sacramentale, ma che certamente potrebbe aiutare il malato con la benedizione di Dio».

Una persona normale si chiede perché mai ci sia bisogno di un “diaconato non permanente” per ascoltare una persona, consigliarla, confortarla e chiedere su di lei la benedizione di Dio, magari usando dei sacramentali, come l’acqua benedetta. Non è dato sapere, ma Giovenale ritiene che «accompagnare le persone nei momenti di afflizione, di dolore, di sorprese, [...] in questi momenti, è importante che ci sia la presenza ufficiale e sacramentale della Chiesa cattolica». Insomma, da questo Sinodo qualche strano nuovo ministero bisogna portarselo a casa.

Al briefing di mercoledì, la musica è parsa sempre la stessa, stavolta con il vigore (che ha assunto a tratti, per chi ha seguito la diretta, toni piuttosto supponenti) di monsignor Erwin Kräutler, emerito di Xingu: «Non c’è un’altra possibilità. [...] I popoli indigeni non intendono il celibato, e lo dicono apertamente. La prima cosa che mi dicono quando arrivo in un villaggio è: “Dov’è tua moglie?”. Non riescono a capire che l’uomo non sia sposato, che non abbia una donna che si occupi della casa». Strano che le donne presenti non abbiano inveito contro la mentalità “retrograda” dei popoli amazzonici, che ritengono che le donne si debbano occupare del focolare. Verrebbe da chiedere a monsignor Kräutler cosa avrebbe dovuto fare la Chiesa ogni volta che, nella sua storia, ha avuto a che fare con popoli che praticavano aborto e infanticidio; con culture per le quali un matrimonio monogamo, senza harem, era considerato perlomeno una noia mortale; o con idee religiose che proprio non vedevano di buon occhio la morte di un Dio. E che dire della scelta verginale di Gesù e Maria, in una tradizione religiosa che riteneva come particolare segno della benedizione di Dio una mensa contornata da numerosi figli, come virgulti d’ulivo [Salmo 127 (128), 3]?

E anche monsignor Kräutler ha insistito sul diaconato femminile: «I due terzi delle comunità amazzoniche che sono senza sacerdoti sono dirette e coordinate da donne. Si parla tanto di valorizzazione della donna, ma cosa vuol dire? Hanno bisogno di riconoscimenti concreti, come il diaconato femminile, che è un argomento del Sinodo».

L’ordinazione di uomini sposati, sostenuta dai tre vescovi sopra menzionati, poggia perlopiù sulla seguente argomentazione: l’importanza dell’Eucaristia meriterebbe la rinuncia al celibato; monsignor Kräutler ha domandato se sia giusto che il peso del piatto della bilancia del celibato debba essere maggiore di quello della possibilità di avere la celebrazione dell’Eucaristia. Anzi, secondo questo modo di ragionare, non autorizzare l’ordinazione di uomini sposati per garantire la Messa andrebbe in qualche modo contro le parole di Gesù, che ha comandato: «Fate questo in memoria di me».

In un’ottica così funzionalistica, bisognerebbe domandarsi come mai a Gesù non sia venuto in mente di scegliere più di dodici apostoli, o di ordinare sacerdotesse o diaconesse le donne che erano al suo seguito.

Qualcuno potrebbe obiettare che però alcuni apostoli erano sposati, e che nella Chiesa antica non erano pochi i coniugati che venivano ordinati. Ma quello che non si vuole mai ricordare è che a tutti costoro fu chiesto di lasciare tutto, incluse le proprie spose, secondo quanto riferito da san Luca: «In verità io vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà» (Lc 18, 28-30). È l’inizio di quella che veniva chiamata disciplina della continenza, che si affiancava a quella del celibato.

Ora, non è la prima volta che la Chiesa si trova ad affrontare il problema dell’insufficienza del numero di presbiteri, soprattutto nelle zone di missione. Ma, nonostante le pressioni ricevute nel corso della sua storia, essa non ha mai voluto percorrere la strada del celibato facoltativo. È stato il Signore a indicare cosa fare: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe» (Lc 10, 2). Quel Signore che ha detto «Fate questo in memoria di me», è dunque lo stesso che ha chiesto di lasciare tutto - eventuali mogli incluse - e di chiedere nella preghiera il dono di operai che lavorino nella Sua messe, non di inventarsi nuove categorie di preti.

Al Sinodo bisognerebbe leggere un articolo de La Civiltà Cattolica (n. 3989 - 10 settembre 2016), che presenta la situazione dei cristiani cinesi nel XVII secolo. Essi erano organizzati attorno a comunità che avevano caratteristiche molto simili a quelle attuali dell’Amazzonia; avevano guide laiche, perché non c’erano sufficienti missionari, e particolarmente rilevante era il «ruolo delle donne quali trasmettitrici di rituali e di tradizioni all’interno della famiglia». Come funzionavano queste comunità? «Un prete itinerante (inizialmente uno straniero, ma nel XVIII secolo prevalentemente preti cinesi) era solito far loro visita una o due volte l’anno. Di norma i capi delle comunità riunivano i vari membri una volta la settimana e presiedevano alle preghiere, che la maggior parte dei membri della comunità conosceva a memoria. Essi leggevano anche i testi sacri e organizzavano l’istruzione religiosa. Spesso si tenevano incontri a parte per le donne. Inoltre, vi erano catechisti itineranti che istruivano i bambini, i catecumeni e i neofiti. In assenza di un sacerdote, capi locali amministravano il battesimo. Durante la sua visita annuale di alcuni giorni, il missionario conversava con i capi e con i fedeli, riceveva informazioni dalla comunità, si interessava delle persone malate e dei catecumeni ecc. Ascoltava confessioni, celebrava l’Eucaristia, predicava, battezzava e pregava con la comunità. Dopo la sua partenza, la comunità continuava la sua consueta pratica di recitare il rosario e le litanie. Il cristiano ordinario quindi incontrava il missionario una o due volte l’anno». E la fede non è andata perduta, ma è cresciuta, senza inventarsi preti non celibi.

Non si vuole sostenere che questo sia l’optimum, ma di certo è stato ed è l’inizio di molte realtà e, forse, diventerà il futuro dell’Europa. Il punto è che se la fede viene conservata, trasmessa, la vita interiore coltivata, se l’importanza del sacerdozio e dei sacramenti viene compresa e desiderata, allora non si protesta contro un sacerdozio esclusivamente celibe, ma si lavora perché anche all’interno delle proprie comunità germoglino e crescano autentiche e numerose vocazioni. Se in alcune comunità il senso del celibato non viene capito e di conseguenza non viene compreso perché una persona sposata non possa essere ordinata, allora forse bisogna chiedersi cosa è andato storto nell’evangelizzazione. Che in Amazzonia dura da quattro secoli.