l'analisi

Rupnik, un'arte superficiale e che non è frutto di preghiera

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«Nelle opere di Rupnik vi è solo un'imitazione superficiale ed esteriore della pittura bizantina. È necessario invece vivere una vita di preghiera, essere intrisi di una spiritualità, sottoporsi a penitenze prima di mettere mano ai pennelli, essere mossi dallo Spirito Santo e dal desiderio di comunicare la fede ai fratelli, senza puntare su guadagni astronomici». Il professor Giorgio Esposito spiega perché Rupnik e le sue opere sono la falsificazione dell’iconografo orientale. 

Ecclesia 12_06_2023

Il dibattito sulle opere del gesuita Marko Ivan Rupnik deve continuare su più livelli. Il primo, quello che per ovvie ragioni risulta maggiormente sensibile, riguarda l’opportunità che la produzione di un sacerdote che ha abusato di donne, per lo più consacrate a Dio, legate a Lui esclusivamente mediante la professione religiosa, ed in particolare il voto di castità, possa continuare a rimanere nelle chiese ed essere oggetto di annuncio della fede.

Ha lasciato piuttosto perplessi la scelta di papa Francesco di realizzare con un telefonino un video piuttosto artigianale, in occasione del XVI Congresso Mariologico di Aparecida, il più grande santuario mariano del Brasile, nel quale il Pontefice commentava appunto un’opera di Rupnik. In tutto il Vaticano, non si è riusciti a reperire altre opere d’arte sacra cui riferirsi? La scelta del Papa suona di fatto come un pubblico endorsement della più alta autorità della Chiesa cattolica all’opera e alla persona del gesuita sloveno.

Eppure, al di là della grave questione morale, sulla quale ancora non sono state prese sanzioni giuste, sono sempre di più gli artisti e storici dell’arte che sollevano più di un problema sui bizantinismi dei mosaici del gesuita. Come il prof. Giorgio Esposito, già docente nei Licei artistici: «nelle opere di Marko Rupnik vi è solo un'imitazione superficiale e puramente esteriore della pittura bizantina. Non basta usare la tecnica del mosaico con le sue belle tesserine dorate e inondare di luce gli sfondi, incorniciare di aureole a tutto spiano i volti delle figure rappresentate per ottenere qualcosa di spirituale, o disegnare in modo scorretto le prospettive degli ambienti ostentando una falsa ingenuità e purezza quasi infantili, per produrre qualcosa di simile all'iconografia bizantina. È necessario invece vivere una vita di preghiera, essere intrisi seriamente di una spiritualità, sottoporsi a penitenze di vario genere prima di mettere mano ai pennelli, cose che erano soliti fare i pittori bizantini. È necessario essere animati e mossi dallo Spirito Santo oltre che da una grande fede e dal desiderio vivo di comunicarla ai fratelli, senza puntare su guadagni astronomici».

Quale sia stata l’ascesi di Rupnik, soprattutto de sexto, è ormai arcinoto; Rupnik è stato dunque la falsificazione dell’iconografo orientale e le sue opere artistiche non sono da meno (come era già stato notato qui): «La contraffazione diventa evidente in alcuni particolari: in un piede troppo grande ben piantato sul terreno, in una mano troppo carnale avvezza più al possesso che alla preghiera, a volti tutti identici, stereotipati, quasi fatti con lo stampino, all'espressione di un volto imbambolato più che rapito in estasi mistica, ad occhi senza una scintilla di luce che pare contemplino le tenebre degli inferi, anziché la luce sfolgorante del Tabor, ad un disegno troppo arrotondato, affrettato e superficiale che a volte sembra rasentare il fumetto», spiega il prof. Esposito.

Dettagli importanti, che danno ragione ai fedeli che difficilmente pregano indirizzando lo sguardo verso i mosaici di Rupnik, quando addirittura non li fuggono. La riflessione del prof. Esposito va però più lontano. Perché questo ritorno spurio all’arte bizantina in Occidente? In parte, ne avevamo parlato con Mons. Nicola Bux, che aveva colto nell’astrattismo della produzione artistica occidentale contemporanea la ragione della creazione di un vuoto, nel quale Rupnik si è abilmente infilato, sfruttando l’afflato spirituale che alcuni elementi del mosaico bizantino suscitano. Ma c’è altro: un’incomprensione dello sviluppo dell’arte sacra occidentale, unita all’incapacità di porsi sui suoi passi, che richiedono un lungo tempo di tirocinio ed un’elevata competenza tecnica.

In particolare, la scuola italiana «aveva permesso di rappresentare la figura umana senza ricorrere ad un modello vivente», mediante un articolato e complesso procedimento di proiezioni ortogonali e ribaltamenti delle diverse parti anatomiche, spiegato dal pittore e incisore Albrecht Dürer (1471-1528) nel suo trattato Della simmetria dei corpi umani, il quale aveva compiuto un viaggio in Italia con il preciso scopo di apprendere questo sistema. «Questa pratica durava molti anni - spiega il prof. Esposito - e ci fa comprendere il motivo per cui i nostri grandi artisti dell'epoca diventavano anche esperti architetti», come Giotto, Bernini e Michelangelo. «Infatti la pratica di mettere in prospettiva un corpo umano richiede un'abilità infinitamente maggiore che non il mettere in prospettiva un solido geometrico come un cubo, un cilindro o una piramide. Michelangelo perfezionò ulteriormente questa visione inserendo la linea serpentina ad S di cui parla Hogarth (1697- 1764) nel suo trattato Analisi della bellezza, facendo assumere alla figura umana il movimento di torsione che faceva apparire come animate le figure».

Cosa c’entra questo con il presunto ritorno all’arte bizantina che ha caratterizzato gli ultimi decenni della pittura sacra? Perché questo rifiuto di porsi all’interno dello sviluppo dell’arte rinascimentale? Secondo il prof. Esposito, «sicuramente perché l'arte bizantina non richiede uno studio approfondito della geometria, né dell'anatomia e tanto meno della prospettiva. Questo spiega il proliferare di tanta arte pseudo-bizantina nella nostra epoca», da parte di artisti completamente alieni al contesto che ha generato, custodisce e trasmette quell’arte. «Improvvisamente molti artisti, le cui raffigurazioni erano ispirate all'action painting di Pollok, all'espressionismo astratto di Rothko o all'astrattismo di Kandinski, sono passati tranquillamente ad un'arte di ispirazione bizantina. Infatti per questi artisti passare alle rappresentazioni classiche sarebbe stato impossibile, dato che questo tipo di pittura richiede un lunghissimo periodo di apprendimento, di almeno 20 anni, nello studio della tecnica utilizzata dai grandi maestri della tradizione occidentale».

L’altra via d’uscita, opposta all’astrattismo, ma che rivela la stessa dinamica, è quella di un eccessivo realismo, che sta trasformando la pittura in riproduzioni fotografiche. Ma anche in questo caso si deraglia dai binari di un’autentica arte sacra, «la quale necessita di un certo distacco dalla visione materiale a vantaggio di una certa spiritualità, come rimarca opportunamente l’enciclica Mediator Dei, nella quale Pio XII chiede un'arte che “eviti l'eccessivo realismo da una parte e l'esagerato simbolismo dall'altra”».

L’arte pseudo-bizantina di Rupnik effettivamente mostra i segni della sua ispirazione astrattista, che nulla ha a che vedere con l’icona orientale, ma che invece svela il ripiego «verso la pittura bizantina più stilizzata e più semplice da eseguire», conclude Esposito. Un ripiego che tuttavia mostra, a chi lo guarda con attenzione, più la distorsione dall’arte sacra orientale che non l’imitazione.

Possiamo desumere da quanto detto che la pittura rinascimentale, contrariamente a ciò che si pensa, non è in contraddizione con la pittura bizantina, ma anzi la porta a compimento come la larva, che mutandosi in farfalla, non muta la sua natura. Tutto questo ci fa capire come sia inopportuno da parte di alcuni artisti prediligere forme più approssimative a forme più compiute. Questo è anche il caso di Marko Rupnik.

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