Riforma No grazie: è centralista e autoritaria
Non riduce i costi della politica, colpisce l’autonoma degli enti territoriali, innesca pericolosi conflitti istituzionali, riducendo al lumicino il ruolo legislativo del Senato. Da qui un’involuzione autoritaria che si produrrà con una riforma costituzionale che concentra tutto il potere nel governo. Lo dice Mauro Ronco è presidente del Centro studi Livatino e ordinario di diritto penale all’Università di Padova, nel primo di una serie di interventi sulla riforma costituzionale.
La riforma costituzionale sottoposta a referendum nei prossimi mesi si presenta come diretta a 1) superare il bicameralismo paritario; 2) ridurre il numero dei parlamentari; III contenere il costo di funzionamento delle istituzioni; IV) sopprimere il Cnel e V) revisionare il titolo V della parte II della Costituzione, relativo agli enti di autonomia territoriale.
1. Profili demagogici della riforma. - Alcuni obiettivi indicati nel titolo del testo di legge appaiono di natura prevalentemente simbolica, non trovando riscontri puntuali nel tessuto normativo. Ciò vale in modo particolare per il tema relativo al contenimento dei costi della politica, che non è direttamente preso in considerazione dalle nuove disposizioni normative ed appare quasi un pretesto per la presentazione demagogica della legge. Anche la soppressione del Cnel, pur auspicata da molti, non sembra incidere in modo significativo sui costi della politica.
2. Il carattere pletorico e sovrabbondante del testo. - Il testo si presenta pletorico e sovrabbondante. La Costituzione, come legge fondamentale del Paese, deve limitarsi a dire l’essenziale in ordine alla composizione, ai poteri e al funzionamento degli organi che presidiano la vita politica e amministrativa dello Stato. L’essenzialità esprime in modo chiaro le caratteristiche dell’ordinamento, lasciando spazio alle consuetudini costituzionali che plasmano a poco a poco il tessuto normativo destinato a reggere il funzionamento degli organi supremi dello Stato. La riforma, invece, scende nel dettaglio della regolamentazione, soprattutto in tema di formazione delle leggi, rischiando di provocare conflitti interpretativi e politici tra la Camera dei Deputati e il Senato, con probabili ricadute sulla conformità costituzionale delle leggi per vizi procedurali nell’iter di formazione.
3. La degradazione del Senato. - La riforma del Senato è criticabile per più aspetti. Più che di riforma, sembra corretto parlare di degradazione del Senato. Ciò soprattutto per le modifiche degli articoli 78, 79, 80 e 94 della Costituzione. i) Il nuovo art. 78 prevede che lo stato di guerra sia dichiarato dalla sola Camera dei deputati; II lo stesso vale ai sensi del nuovo art. 79 per le leggi che contemplano l’amnistia e l’indulto; III) il nuovo art. 82 sottrae al Senato il potere generale di disporre inchieste su materie di pubblico interesse, ammettendolo per le sole materie concernenti le autonomie territoriali. IV) Il nuovo art. 94 riserva alla Camera il potere fondamentale di concedere o revocare la fiducia al governo. In questo modo il Senato è sostanzialmente escluso dall’esercizio effettivo dei poteri costituzionali.
I poteri del Senato sono ridotti al lumicino anche per quanto attiene all’approvazione delle leggi di bilancio e di rendiconto consuntivo presentate dal governo, posto che al Senato sono riservate soltanto “proposte di modificazione ai disegni di legge” che importano nuove e maggiori spese nel breve termine di quindici giorni dalla trasmissione dei disegni di legge approvati dalla Camera dei Deputati (cfr. il nuovo art. 70 terz’ultimo comma della Costituzione). Il Senato è così sostanzialmente escluso anche dal controllo del bilancio dello Stato.
4. L’incongrua composizione e l’inaccettabilità delle modalità di elezione dei senatori. - La degradazione del Senato è evidente anche alla luce della sua composizione e delle modalità di elezione dei suoi componenti. I senatori, in numero di 95 (è prevista la facoltà del Capo dello Stato di eleggere 5 senatori, non più a vita, ma per la durata di sette anni), non sono eletti direttamente dal corpo elettorale, bensì dai Consigli regionali tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascun Consiglio, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori. Inoltre, la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, con evidenti effetti di instabilità per quanto riguarda la vita dell’organo.
In questo modo: I) la riduzione drastica dei poteri, II) l’elezione di secondo grado e la perdita di un rapporto diretto con l’elettorato; III) il collegamento funzionale e temporale del singolo senatore con la carica rivestita in sede locale fanno di quest’organo un elemento meramente esornativo del quadro costituzionale. Il Senato così costituito, lungi dal rappresentare la più alta e autorevole istanza costituzionale, non potrà non subire un’involuzione in una di queste due direzioni, entrambe contrarie al buon andamento della funzione di direzione politica dello Stato. Il Senato diventerà o un ente inutile, simile al Cnel, perché privo di poteri politici effettivi, come capitava all’ente soppresso; ovvero diventerà un organo generatore di conflitti e di contestazioni dell’operato della Camera, come ritorsione pseudo-politica di un corpo politico degradato.
5. La perdita di rappresentatività e di autorevolezza. – La degradazione del Senato concerne anche i due profili fondamentali della rappresentatività e della competenza ed autorevolezza dell’organo. In ogni ordinamento di epoche passate o negli altri Stati contemporanei, la Costituzione si è sempre preoccupata di individuare una Camera alta, cui spettasse pronunciare le parole più autorevoli nei momenti di crisi e le decisioni più difficili che si presentano nel corso della vita statale. Per soddisfare questa esigenza la scelta dei componenti di tale organo ha fatto leva o sulla sua capacità di rappresentare entità omogenee, territoriali o professionali che hanno rilievo nella società civile, ovvero sull’autorevolezza politica, scientifica e professionale dei suoi componenti. La riforma, rinnegando entrambi i criteri, prevede un Senato impotente e dequalificato.
6. L’involuzione autoritaria. - La degradazione del Senato ha un significato politico involutivo di segno autoritario, provocando la concentrazione del potere nel blocco che si verrà a costituire tra il Governo e la Camera dei Deputati, sempre più controllato dalla maggioranza parlamentare, anche se ridotta e non rappresentativa, né qualitativamente né quantitativamente, dell’intero corpo elettorale. Come si è potuto constatare con riferimento all’intera storia costituzionale della Repubblica, il Senato ha esercitato spesso un ruolo equilibratore nello scenario costituzionale.
É vero che il bicameralismo paritario ha attirato frequentemente le critiche degli studiosi per la duplicazione di identiche funzioni, nocivo soprattutto sul piano del procedimento di formazione delle leggi. Ma il testo della riforma non incide primariamente su questo versante, poiché l’attuale art. 70 prevede, oltre alla competenza concorrente di Camera e Senato per alcune materie, altresì che ogni disegno di legge approvato dalla Camera sia trasmesso al Senato. Questo, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo, deliberando proposte di modificazione del testo. La riforma è rilevante soprattutto sul piano politico, poiché il Senato è integralmente estromesso dal circuito della fiducia che deve intercorrere tra il Governo e il Parlamento, ed è privato dei più significativi poteri che spettano a un organo costituzionale dello Stato.
7. La riforma delle autonomie territoriali. - Anche la riforma apportata al Titolo V in ordine alle autonomie territoriali presenta una forte accentuazione centralistica. Ciò in forza soprattutto della modifica radicale degli artt. 117 e 119 Costituzione. La prima modifica incide sulla potestà legislativa, con la soppressione della potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni e con la previsione che la legge dello Stato può intervenire, su proposta del governo, anche in materie non riservate alla sua legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale. L’art. 119 apporta modifiche sull’autonomia finanziaria delle Regioni nel campo delle entrate e delle spese. L’autonomia regionale è formalmente rimasta, ma il nuovo art. 119 prevede che essa si attui “nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci”, concorrendo ad “assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea”.
Il Titolo V della seconda parte della Costituzione, concernente le autonomie territoriali, meritava certamente, dopo la disastrosa riforma adottata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, di essere completamente ripensato allo scopo tanto di ridurre il contenzioso tra Stato e Regioni nelle materie coperte dalla potestà legislativa concorrente, quanto di coordinare i bilanci regionali ai vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea.
La riforma, tuttavia, si è mossa con l’obiettivo di realizzare un accentramento essenzialmente in odio delle autonomie locali. Nessun serio confronto è stato aperto sul tema fondamentale della compatibilità tra il sistema delle autonomie territoriali, il sistema statale e il complesso ordinamento dell’Unione Europea. Di questo tema cruciale non v’è traccia nel testo riformato, quando è evidente lo squilibrio generato dalla sovrabbondanza dei poteri dell’Unione Europea, che schiaccia l’autonomia dello Stato e ancor più delle Regioni.
* presidente Centro Studi Livatino, ordinario di Diritto penale all’Università di Padova