St. John the Evangelist by Ermes Dovico
2010 - ECONOMIA

Problemi globali, soluzioni nazionali

Se il 2009 è stato l’anno della grande recessione, il 2010 non si può certo considerare l’anno del rilancio e della ripresa....

Attualità 30_12_2010
recessione
Se il 2009 è stato l’anno della grande recessione, il 2010 non si può certo considerare l’anno del rilancio e della ripresa. Certo, non va sottovalutato il fatto che dai dati pesantemente negativi si è passati ad una fase di maggiore stabilità e di pur lenta crescita, ma nessuno può affermare con certezza che il sistema economico mondiale abbia definitivamente superato i giorni più difficili. Anzi vi sono economisti che sostengono semplicemente che le misure adottate per affrontare il crollo non costituiscono altro che benzina sul fuoco per la crisi che verrà.

E in effetti le analisi attuali sembrano rispondere perfettamente alla logica di chi diceva: “Avete un problema? Chiedete a due economisti. Otterrete tre soluzioni”. Con le previsioni economiche che sembrano un abbecedario: ormai archiviata l’ipotesi che si sia di fronte ad una crisi a V (rapida caduta e altrettanto rapida risalita), si fanno strada quanti ritengono che si debba guardare ad una W (forte caduta, breve risalita, rapida ricaduta, definitiva ripresa), ma non sono privi di ragione quanti propongono una U (caduta, periodo di stagnazione, ripresa), mentre non mancano i pessimisti che si fermano alla L (caduta e successiva stagnazione).

Nel 2010 che mandiamo in archivio si è avuta tuttavia la conferma di come il mondo abbia ormai raggiunto una significativa globalizzazione dei problemi a cui tuttavia corrisponde ancora la logica nazionale della soluzioni. Con la febbre del debito che dopo essere esplosa nell’estate del 2008 negli Stati Uniti, con gli effetti dirompenti sul sistema finanziario per la dissoluzione della bolla immobiliare e il crollo dei mutui subprime, si è poi allargata all’Europa con la crisi successive della Grecia, nella primavera, e dell’Irlanda nell’autunno del 2010. Con una sostanziale differenza: mentre negli Stati Uniti le difficoltà sono partite dal settore privato, dalle famiglie che non erano più in grado di onorare i debiti e che hanno trascinato a loro volta al fallimento grandi società finanziarie, in Europa le difficoltà sono state determinate essenzialmente dai debiti delle singole nazioni: per la spesa pubblica fuori controllo in Grecia e per i finanziamenti per salvare il sistema bancario in Irlanda.

Ma il detonatore della crisi è stata la recessione che ha colpito la già precaria stabilità dei bilanci riducendo le entrate, aumentando le spese (in particolare quelle di protezione sociale) e quindi mettendo a repentaglio la sostenibilità a lungo termine dei debiti delle singole nazioni. I mercati finanziari hanno avvertito i rischi della crisi e i grandi fondi di investimento internazionali, così come i piccoli risparmiatori, hanno adottato la strategia da una parte di vendere i titoli più a rischio, dall’altra di chiedere rendimenti sempre più alti per acquistarne di nuovi. C’è chi chiama questa strategia “speculazione”, ma nella maggior parte dei casi siamo di fronte al comportamento del buon padre di famiglia che ha cura del proprio patrimonio e non accetta rischi troppo elevati.

Non c’è stato quindi nessun attacco all’euro o all’Europa: c’è stata una prova di maturità per una moneta unica e per le istituzioni comunitarie che si sono trovate, per la prima volta dalla creazione dell’euro, di fronte ad uno scenario di recessione globale e di profonde divergenze nella capacità di rispondere alla crisi.

Con una Germania che ha saputo mettere a frutto una politica di aperture internazionali e di ristrutturazioni industriali e paesi come la Spagna e il Portogallo che hanno affidato la crescita ad un settore immobiliare che non poteva certo crescere a dismisura. Del tutto diversa la condizione dell’Irlanda, un paese con i conti pubblici relativamente in ordine, che si è trovato in difficoltà per aver lasciato crescere un settore bancario non solo sovradimensionato rispetto alla realtà economica del Paese, ma soprattutto direttamente coinvolto nella profonda crisi della finanza americana.


Un discorso del tutto a parte merita l’Italia dove il debito pubblico resta molto elevato ma è finanziato soprattutto dal mercato nazionale ed è stato abilmente tenuto sotto controllo anche se ciò è stato fatto a costo di una pesante recessione nel 2009 e di una crescita ancora molto modesta in questo 2010. L’artefice di questo successo è senza dubbio il ministro dell’economia Giulio Tremonti, un ministro che ha saputo imporre un drastico contenimento delle spese pur senza attuare nessuna particolare riforma di struttura capace di limitare la progressione della spesa pubblica.

Per avviare un risanamento strutturale del proprio bilancio l’Italia avrebbe bisogno di attuare una filosofia che tagli i centri decisionali della spesa: riduzione del numero dei parlamentari, abolizione delle province, semplificazioni amministrative. Tutte cose per realizzare le quali non bastano le promesse, ma ci vuole una grande volontà di cambiamento. Cambiamento, non rivoluzione. Come scriveva George Bernard Shaw: «Il progresso è impossibile senza cambiamento, e coloro che non sono in grado di cambiare le loro idee non sono in grado di cambiare nulla». Parole che accompagnavano gli auguri di Natale di Sergio Marchionne: uno dei pochi che in questa Italia ha avuto il coraggio di cambiare nei fatti, non a parole.