St. John the Evangelist by Ermes Dovico
Appunti per la maturità/11

Pavese, la comunione con l’altro come chiave di vita

Raggiunto l’apice del successo, a 42 anni non ancora compiuti, Cesare Pavese si suicidò. La vittoria (Premio Strega) era stata la conferma dell’inutilità di ogni sforzo dell’uomo di darsi da solo la felicità. L’adesione al Comunismo aveva mostrato l’inconsistenza dell’ideologia e si era risolta in solitudine esistenziale. Eppure lui aveva intuito, anni prima, in cosa consiste «la compagnia che non falla».
L'ESERCITAZIONE

Culture 31_05_2020

Cesare Pavese (1908-1950) chiuse i suoi giorni in una camera d’albergo a Torino, suicida. Alla sua morte furono ritrovate tante pagine di un diario privato all’interno di una cartella verde, fogli sciolti per lo più manoscritti (tranne 14 pagine dattiloscritte). Su una pagina bianca compariva il titolo Il mestiere di vivere di Cesare Pavese, titolo con il quale fu pubblicata la prima edizione postuma dell’opera (1952).

Nell’ultima confidenza affidata al diario annotava (18 agosto 1950):

La cosa più segretamente temuta accade sempre. Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi? Basta un po’ di coraggio. […] Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.          

Pavese non aveva ancora compiuto 42 anni, aveva già pubblicato tantissime opere, raccolte poetiche (tra cui Lavorare stanca, La terra e la morte, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) e romanzi (tra i quali La spiaggia, Il compagno, La casa in collina, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole, La bella estate, La luna e i falò), aveva conseguito la palma del migliore ottenendo il Premio Strega proprio due mesi prima con La bella estate, una trilogia che raccoglie brevi romanzi: La bella estate (1940), Il diavolo sulle colline (1948), Tra donne sole (1949).

Il 14 luglio aveva scritto facendo presagire quanto sarebbe poi successo: «Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla». Aveva sperimentato la maggiore delle delusioni non dopo un insuccesso, ma una volta raggiunto l’apice (Pavese annota nel suo diario: «C’è una cosa più triste che fallire i propri ideali: esserci riusciti»), il riconoscimento che tutti i romanzieri avrebbero voluto conseguire in Italia. Proprio allora si rese conto dell’inconsistenza e della vanità anche di tutti i successi e di tutte le glorie umane. La vittoria era stata la conferma dell’inutilità di ogni sforzo umano di darsi la felicità.

L’adesione al Comunismo (Pavese si era tesserato al PCI nel 1945 per «tacitare i rimorsi e […] rompere l’isolamento» come scrisse Davide Lajolo nel Vizio assurdo, fondamentale biografia dello scrittore) aveva mostrato l’inconsistenza dell’ideologia e la sua incapacità a cogliere la complessità del reale.

Pavese aveva sperimentato anni addietro come l’esigenza primaria dell’uomo fosse quella comunione con l’altro che rompe la solitudine esistenziale. In una pagina de Il mestiere di vivere, datata 1939, Pavese annota

La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto – la religione – consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è lo sfogo come con un amico […]. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. Così si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie. Perché poi qui stia la felicità, mah! Perché si debba star meglio comunicando con un altro che non stando soli, è strano. Forse è solo un’illusione: si sta benissimo soli la maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarsi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri.

L’uomo si può conoscere e riavere solo nel rapporto con l’altro, proprio perché l’io è rapporto strutturale con un tu. Quattro anni prima (nel 1935) Pavese aveva forse pensato che l’amore potesse infrangere l’incomunicabilità che si percepisce tra gli esseri umani. Aveva iniziato una relazione sentimentale con Tina Pizzardo, la «donna dalla voce rauca», impegnata nel Partito comunista. In seguito alla perquisizione della sua casa e al ritrovamento di una lettera di Alfredo Spinelli (detenuto politico), in realtà indirizzata alla Pizzardo, Pavese venne confinato per un anno a Brancaleone Calabro, accusato di collaborare con gli antifascisti. Quando ritornò a Torino, Pavese scoprì che la donna amata si stava per sposare con un altro uomo. Grande fu la delusione.

Il mestiere di vivere è, forse, il più bel diario che sia mai stato steso insieme allo Zibaldone di Leopardi, da leggersi a sorsi, come si assaggia un vino pregiato. Vi dominano la vita, la dimensione dell’esperienza, la ricerca della maturità (per Pavese «Ripeness is all» ovvero «la maturità è tutto»), la consapevolezza che l’animo umano è strutturato come attesa.

Il 27 novembre del 1945 Pavese annota: «Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?». Nessuna delusione, per grande che sia, può estirpare questa innata aspettativa del compimento. Disumano, addirittura tragico, sarebbe non attendersi più nulla: «Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile» (15 settembre 1946).

Nel 1942 Pavese aveva intuito, così almeno ci sembra di capire, che l’attesa scaturisce da un’esperienza già vissuta e sperimentata. Scriveva, infatti, il 28 gennaio:

Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla - ora soltanto - per la prima volta. Devi creare un nesso tra il fatto che nei momenti più veri tu sei inevitabilmente ciò che fosti in passato […] e il fatto che soltanto le cose ricordate sono vere.

La memoria di quanto è stato è ciò che permette all’uomo di essere pienamente tale. È il ricordo dell’evento, di quanto sarà e si ripeterà sempre. Altrove Pavese usa il termine «mito», parola a lui così cara che alla dimensione del mito dedicherà l’intera opera Dialoghi con Leucò e la poesia «Mito» («Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo/ senza pena, col morto sorriso dell’uomo/ che ha compreso»).

L’idea del viaggio, di una vita in cui si prende consapevolezza di sé e della realtà, in cui si possa giungere a cogliere l’essenza stessa di ciò che sta oltre il tempo, proprio perché permane, invariabile, è sottesa a tutta la produzione di Pavese, da quella poetica (si pensi a I mari del sud) a quella narrativa.

La vita dell’uomo permette viaggi, ma non ritorni. Annotava Pavese il 15 febbraio del 1950: «Ragioni sempre: le cose prima d’esser conosciute, le cose dopo conosciute… Il problema è sempre quello – razionalizzare, prender coscienza, fare storia». Ma non tutto si comprende. «Poesia è rappresentare il nodo irrisolto come tale, farne sentire il mistero, il selvaggio. Ma allora dov’è lo sforzo di conoscere del poetare?» (15 febbraio 1950). La poesia e l’arte più in generale nascono dal mito, non da un concetto. I «compagni» comunisti di Pavese non concordavano con questa visione dello scrittore, lo trovano un cattivo compagno, come lo scrittore precisa nello stesso giorno sul diario.

La maturità dell’uomo è questa consapevolezza della vita, questa accettazione del destino che, se non si tramuta in amore, lascia solo tanta tristezza e malinconia. L’uomo è in attesa della buona novella, che il Mistero (così presente in tutta la produzione di Pavese) condivida la strada con noi, si faccia compagnia e presenza umana, rompendo così la solitudine. Questa era stata l’intuizione di Pavese descritta nella pagina di diario del 1939: «Il supremo conforto – la religione – consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio».

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