Omofobia, a condannare ci penserà la Cassazione
Due sentenze della Cassazione sulla Legge Reale-Mancino - che sarà estesa ai reati di omofobia e transfobia - dimostrano che se la legge passasse sarebbero facilmente condannati tutti coloro che pubblicamente si esprimessero contro matrimoni e adozioni gay.
Come è noto, il disegno di legge che sarà votato nelle prossime settimane alla Camera dei Deputati è stato radicalmente emendato e, nel testo presentato per la discussione all'Assemblea, si limita ad integrare due norme penali: la legge 654 del 1975 e il decreto legge 122 del 1993. Questa semplificazione, in qualche modo, è significativa per indicare lo spirito che anima il progetto di legge: reprimere penalmente coloro che sono "affetti" dalle – niente affatto specificate – "omofobia" e "transfobia".
Sembra interessante, allora, verificare in che modo queste due leggi sono state applicate dai giudici penali: e le ultime due sentenze emesse dalla Cassazione permettono di comprendere a cosa andiamo incontro.
Leggiamo questa massima: "Integra il reato di propaganda di idee discriminatrici, previsto dall'art. 3 comma primo lett. a) della l. n. 654 del 1975, l'intervento di un consigliere comunale contenente affermazioni fondate sull'odio e la discriminazione razziale ai danni delle Comunità Rom e Sinti nel corso di una seduta consiliare" (Sez. 1, n. 47894 del 22/11/2012 - dep. 11/12/2012, P.G. in proc. Giuliana Emilio, Rv. 254074).
L'intervento – infelice e polemico – di un consigliere comunale di Trento lamentava che i bambini nomadi non frequentassero le scuole e che l'asilo strutturato nel campo nomadi non fosse frequentato dai bambini, laddove invece la mensa risultava frequentata da tutti gli occupanti del campo, criticandosi l'esborso economico gravante sulla collettività e l'opportunismo di detta comunità. Erano state pronunciate anche frasi assai infelici, avendo affermato il consigliere che gli zingari erano dei delinquenti, molti assassini e comunque animati da pigrizia, furore e vanità; ma sia il Tribunale che la Corte d'appello di Trento avevano ritenuto queste frasi espressive di avversione, ma non di superiorità ed odio razziale. Inoltre entrambi i giudici avevano escluso che si fosse trattato di "propaganda", condotta inserita successivamente e interpretata come espressione della volontà del legislatore di restringere le maglie della condotta punibile, per evitare una compressione eccessiva della libertà di manifestazione del pensiero.
La Cassazione ha ritenuto il contrario: dapprima ha richiamato la valutazione della Corte d'appello, secondo cui "era dato rinvenire traccia nel discorso pronunciato dal consigliere comunale di un sentimento di avversione nient'affatto superficiale nei confronti dei soggetti di etnia sinti, determinata proprio dal loro essere zingari e non già da specifiche e concrete condotte..." e che alcune affermazioni "tradivano l'evidente pregiudizio razziale del Giuliana nei confronti di un'intera etnia, generalmente considerata, giudicata di un'inferiorità culturale tale da poter essere affrontato e definitivamente risolto il problema della loro presenza sul territorio solo con un taglio alle radici e dunque con l'allontanamento dei bambini dalle loro famiglie"; poi ha escluso che la condotta di "propaganda" sia qualcosa di meno della semplice diffusione: "il reato previsto dalla L. n. 654 del 1975, art. 3, lett. a) non esclude affatto dall'alveo precettivo anche un'isolata manifestazione a connotazione razzista; l'elemento che caratterizza la fattispecie è la propaganda discriminatoria, intesa come diffusione di un'idea di avversione tutt'altro che superficiale, non già indirizzata verso un gruppo di zingari (magari quelli dediti ai furti), ma verso tutti gli zingari indicati come assassini, ladri, pigri, canaglie, aguzzini e via dicendo, quindi verso il loro modo di essere, verso la loro etnia evocata espressamente, avversione apertamente argomentata sulla ritenuta diversità ed inferiorità".
Fermiamoci qui: abbiamo un consigliere comunale che interviene polemicamente su una questione effettivamente esistente e – nessuno lo discute – si fa trasportare dalla foga (e, perché no? dai suoi pregiudizi su rom e sinti) e generalizza il suo discorso. Condotta certamente censurabile: ma il giudice penale va ad analizzare il discorso frase per frase e discetta (ovviamente con risultati diversi da giudice a giudice: tot capita, tot sententiae) se alcune di esse esprimano o meno idee di discriminazione. Quanto alla propaganda, poi, nessun ostacolo alla punizione: in sostanza basta pronunciare le frasi in pubblico, in un luogo (in questo caso il Consiglio comunale) dove molti ascoltano e riprendono.
La seconda vicenda ha richiesto addirittura due sentenze della Cassazione. Leggiamo l'esito finale: "E' configurabile il reato di propaganda di idee discriminatorie, previsto dall'art. 3, comma primo lett. a), della L. n. 654 del 1975, nell'affissione di manifesti sui muri della città del seguente tenore: "No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare via gli zingari". (Sez. 4, n. 41819 del 10/07/2009 - dep. 30/10/2009, Bragantini e altri, Rv. 245168).
Il fatto – avvenuto a Verona – è assai noto. Molto significativo è il "mandato" che la prima sentenza della Cassazione aveva affidato ai giudici di merito: la Corte di appello era stata chiamata a stabilire se il pregiudizio razziale, fondato sul convincimento che tutti gli zingari sono ladri, costituisse - tenuto conto delle circostanze temporali ed ambientali nelle quali era stato espresso - un'idea discriminatoria fondata sulla diversità e non sul comportamento.
Vedete? Anche in questo caso i giudici sono invitati a discettare sulle singole frasi del manifesto e a scoprire quale "idea" muovesse i promotori della raccolta di firme: essi esprimevano un'idea fondata sulla "diversità" degli zingari o sul loro comportamento discutibile?
Proviamo a trasportare i principi che si ricavano da queste due vicende al progetto di legge che il Parlamento sta per discutere.
Ad essere state ritenute punibili sono due condotte che rientrano nell'alveo della democrazia (in un caso, l'intervento di un consigliere comunale nell'assemblea cittadina; nell'altro, una raccolta di firme per una petizione, espressione di una democrazia partecipata, accompagnata da riunioni pubbliche) e che si sono concretizzate nella semplice manifestazione del proprio pensiero; le frasi pronunciate o scritte erano certamente discutibili e censurabili, ma non erano del tutto sganciate dalla realtà concreta; il solo fatto che le idee fossero state manifestate pubblicamente è stato ritenuto sufficiente per integrare una "propaganda"; i giudici hanno analizzato le singole frasi per estrarre l'idea di fondo che muoveva chi le pronunciava.
Ma sostenere che il matrimonio omosessuale non deve essere permesso e che i bambini hanno bisogno di un padre o di una madre esprime forse "un'idea fondata sulla diversità degli omosessuali o sul loro comportamento"?
Ecco: con la nuova legge ci sarà un giudice penale a valutare il vostro discorso e a dirvi (mandandovi in carcere): "Le tue parole manifestano un'idea discriminatoria fondata sulla diversità; sei un omofobo e, quindi, devi essere punito perché hai parlato pubblicamente".
* Magistrato presso la Corte di Cassazione