Holy Thursday by Ermes Dovico

LA STORIA

Nievo e le ombre massoniche dietro l'Unità italiana

Ippolito Nievo è conosciuto per essere l’autore di uno dei più bei romanzi dell’ottocento, Le Confessioni. Meno nota è la sua partecipazione alla spedizione garibaldina del 1859. Una figura da approfondire.

Culture 02_03_2013
Risorgimento

Ippolito Nievo è conosciuto per essere l’autore di uno dei più bei romanzi dell’ottocento, Le Confessioni. Meno nota è la sua partecipazione alla spedizione garibaldina del 1859, nel corso della quale gli fu affidato l’incarico di Vice Intendente: divenne responsabile dell’amministrazione del corpo di spedizione e, in seguito, dell’Esercito Meridionale.

Di questa storia, ne parla Cesaremaria Glori, nel libro La tragica morte di Ippolito Nievo – Il naufragio doloso del piroscafo Ercole, pp. 203 – Edizioni Solfanelli. Vengono proposti documenti sorprendenti – che delineano su quali basi sia nata la cosiddetta unità d’Italia – come ad esempio la lettera che il 24 ottobre 1859, il Primo Ministro del Governo Sabaudo, il Conte Cavour, indirizza ad Antonio Genesio Maria Panizzi.
Chi era costui? Una figura di cui non si parla quasi per nulla sui libri di storia, ma di grande importanza.

Panizzi era un patriota, ma soprattutto fu direttore della Biblioteca del British Museum di Londra dal 1856 al 1866, uomo in grado di “rappresentare” in Gran Bretagna le “esigenze” dell’Italia che si andava formando. Quali erano queste esigenze? Scrive Cavour: “Carissimo Panizzi (…), il trattato di Vienna ha molte parti odiose; pure è meno odiabile di quello di Campoformio. Rispetto alle Romagne, sarà facile all’Inghilterra il far respingere l’idea delle riforme papali (…). Il Papa come Papa subirà più facilmente la perdita di una provincia che la non promulgazione nei suoi Stati del Codice Civile Napoleonico. La restaurazione papale deve impedirsi ad ogni costo; è questione non solo italiana, ma di interesse europeo”.

C’è un motivo della scarsa notorietà di Panizzi: non mettere in risalto il ruolo determinante che svolsero la Gran Bretagna e le sue organizzazioni associative, altrimenti si sarebbero potute toccare le suscettibilità delle altre potenze europee, soprattutto della Francia. Panizzi era insignito dell’Ordine del Bagno, titolo che comportava quello di Sir, concesso anche a un suo collaboratore, Lacaita, avvocato di Manduria. Panizzi e Lacaita, Luigi Settembrini, Giuseppe Pica, Carlo Poerio, Lord Russell, Palmerston, Gladstone, non vengono citati nei libri scolastici, ma nel racconto sapiente di Glori, in maniera semplice, scorrevole e mossa, si dipana la matassa intricata della storia risorgimentale italiana e i suoi legami con la massoneria (soprattutto inglese).

Grazie alla storia tragica di Nievo, Glori tratteggia un affresco storico di un’Italia intrisa di sangue italiano, versato per interessi di pochi italiani e molti inglesi. Infatti, il Regno Borbonico di Ferdinando II, pur avendo un’industria sviluppata – ad esempio, le acciaierie di Pietrarsa, con 1.800 operai, i cui macchinari dopo il 1861 furono espiantati e trasportati ad ingrandire quelli dell’Ansaldo, dove fino a quel momento lavoravano 400 operai – doveva essere abbattuto, perché costituiva un baluardo della cristianità, inviso alle cancellerie europee.

La cosa più agghiacciante, provata dalla documentazione prodotta da questo libro, è che la fine del Meridione fu determinata dallo scellerato patto tra la sua classe dirigente e il Piemonte di Cavour. Glori spiega, attimo per attimo, come Cavour cavalcò brillantemente la “tigre britannica”, per l’eliminazione del Regno delle Due Sicilie e del Papa e dice finalmente una verità riguardo al brigantaggio, diversa da quella che viene artatamente propagandata: i briganti sono patrioti con un ideale diverso. Insomma, la ricostruzione storica netta, lucida, precisa, dettagliata, dei rapporti di Garibaldi e di Cavour con la massoneria, è avvincente e, allo stesso tempo, alla coscienza del lettore si propone un interrogativo dilaniante: sono io dedito al mio lavoro, coscienzioso e idealista, come Ippolito Nievo? Sono anch’io vittima, come Nievo, di una realtà storica le cui verità sono celate?

Basti pensare che nel 1988 a Torino (convegno della massoneria), fu ammesso pubblicamente che i britannici diedero tre milioni di franchi a Garibaldi. È questa l’unità italiana? Noi tutti siamo l’Ippolito Nievo del 2013, figli di quel processo di “civiltà laica” (così amava definirla Cavour nella lettera a Panizzi), alternativa a quella cristiana, della quale (forse!) ha preso il posto. Nievo, infatti, già nell’agosto 1860, a pochi mesi dallo sbarco dei Mille a Marsala, si era reso conto che si stava facendo un’Italia molto diversa da quella che lui sognava e che aveva in mente quando scrisse, l’anno precedente (1859) il saggio “Venezia e la libertà d’Italia”.

In quel saggio lo scrittore veneto/friulano suggeriva e auspicava che la nuova Italia ereditasse dalla Repubblica di San Marco, più che dalla Francia, le linee guida per fondare uno Stato coeso e non diviso fra le plebi rurali e le classi agiate, come se queste costituissero due entità statuali diverse conviventi sullo stesso territorio. Nievo aveva scorto il male che la società del tempo stava acuendo, cioè la frattura fra plebi rurali abbandonate al loro stato e una sparuta minoranza di aristocratici e ricchi borghesi, mentre per fare l’Italia nuova occorreva ereditare dalla Serenissima Repubblica quell’attenzione alle plebi che avevano reso prospero e vitale il più antico stato della penisola, uno stato che non fu mai assoggettato dallo straniero.

Quell’eredità doveva essere coltivata e presa a modello per costruire la nuova Italia, apportando le necessarie modifiche per adattarsi ai tempi moderni. Nievo aveva visto che permanendo quella frattura sarebbero sorte lotte fratricide. In quel saggio, Nievo aveva diagnosticato i mali futuri dell’Italia, con molto anticipo rispetto a Gramsci, ma proponendo l’unione e la collaborazione fra le classi invece che lo scontro prevaricatore delle une sulle altre. Da non sottovalutare inoltre la raccomandazione che lo scrittore rivolgeva a chi stava costruendo l’Italia: non togliere al popolo la sua fede e la Chiesa con i suoi preti, perché era stata proprio questa a mantenere vivo lo spirito di italianità, pur nella divisione in diversi principati. Forse anche per questo motivo era divenuto inaffidabile alla nuova casta dirigente del Regno d’Italia.