Mai lecito “cambiare” sesso: l’uomo è corpo e anima
Le persone con il disturbo della cosiddetta disforia di genere sperimentano una profonda sofferenza e hanno bisogno del nostro amore fraterno. In nessun modo si è loro di aiuto facendo sì che distruggano organi sani, né bloccandone la pubertà con farmaci come la triptorelina. La medicina deve rispettare la corporeità. E la Chiesa insegna che la persona è «corpore et anima unus» (Gaudium et spes), unione inscindibile di anima e corpo, che quindi è sempre illecito manipolare.
Le persone affette dal disturbo dell’identità di genere, detto anche disforia di genere, sperimentano una profonda sofferenza esistenziale. Non meritano alcuna condanna o biasimo, sono piuttosto degne della nostra attenzione, del nostro rispetto - ma è troppo poco - del nostro amore fraterno e di carità, della nostra attenzione di amici disinteressati. Parlarne nei termini di “brutto scherzo”, come ha fatto Michela Marzano, non è certamente rispettoso. Voglio occuparmi del fenomeno in sé, quindi in termini astratti: questo deve essere da noi conosciuto, non censurato sulla base di pregiudizi o di ideologie, ma valutato per quello che è.
La persona che soffre di questo disturbo vive un conflitto interiore tra l’identità che percepisce di sé (la cosiddetta identità di genere) e il proprio sesso biologico. Ad esempio si sente femmina intrappolata - o come spesso dicono “imprigionata” - in un corpo di maschio (un caso ogni 10.000 maschi); oppure si sente maschio intrappolato in un corpo di femmina (un caso ogni 30.000 femmine). Il disturbo consiste, quindi, in una pulsione psicologica di appartenere al sesso opposto a quello genetico, endocrino e fenotipico e (ovviamente) anche anagrafico.
Tra i criteri diagnostici ne ricordo tre:
1) una forte e persistente identificazione con il sesso opposto (non solo un desiderio di qualche presunto vantaggio culturale derivante dall’appartenenza al sesso opposto). Se si tratta di un adulto con disforia di genere, egli prova fastidio, disagio e sofferenza quando è considerato dagli altri o quando si deve comportare socialmente come membro del suo sesso biologico;
2) desidera sbarazzarsi delle proprie caratteristiche sessuali primarie e secondarie, ad esempio chiede ormoni, interventi chirurgici o altre procedure per alterare fisicamente le proprie caratteristiche sessuali, in modo da assumere l’aspetto di un membro del sesso opposto;
3) è convinto di essere nato nel sesso sbagliato: per questo usa espressioni come “intrappolato” o “imprigionato”.
Nota poi che il disturbo non è concomitante con una condizione fisica intersessuale o con ambiguità di ordine genitale.
Il disturbo causa un disagio clinicamente significativo o una compromissione dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti. Il disagio può arrivare fino alla schizofrenia e a tentativi di suicidio, e spesso evolve verso il delirio.
Circa l’insorgenza del disturbo nella pubertà e adolescenza, il 16 agosto 2018 Lisa Littman, ricercatrice alla Brown University School of public health, ha pubblicato su Plos One quello che è stato elogiato come «il primo studio serio sulla “disforia di genere a insorgenza rapida” (rapid-onset gender dysphoria, Rogd)»: disforia di genere che compare improvvisamente nei ragazzini durante la pubertà o dopo il suo completamento, senza precedenti avvisaglie - e quindi, va da sé, più per ragioni culturali che innate e biologiche. Non a caso, nel suo studio, Lisa Littman ha rilevato come, fra i minori “divenuti transgender”, il 62% riportasse anche una diagnosi di disturbo psicologico e il 48% avesse visto precedere la propria disforia di genere da eventi traumatici o stressanti quali episodi di bullismo, violenze sessuali e il divorzio di genitori.
Da alcuni anni il protocollo di trattamento seguito consiste in: trattamento ormonale; chirurgia corporea; adottare stereotipi comportamentali del sesso cui si vorrebbe appartenere. E se la persona con disturbo di disforia di genere è prepubere, il trattamento ormonale consiste nell’assunzione di triptorelina: questa fa diminuire la secrezione ipofisaria delle gonadotropine e così blocca lo sviluppo della pubertà fisiologica, che risulta fonte di grande sofferenza. Secondo il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del luglio 2018 la somministrazione della triptorelina dovrebbe essere limitata esclusivamente ai «casi ove gli altri interventi psichiatrici e psicoterapeutici siano risultati inefficaci». Il suo scopo sarebbe quello di allungare la «finestra terapeutica» del giovane paziente: blocco lo sviluppo fisiologico della pubertà per eliminare la fonte di disagio e prendere tempo per esplorare possibilità terapeutiche. Quindi, secondo questo modo di pensare, la somministrazione della triptorelina non è direttamente funzionale al cambiamento di sesso.
Ma questo tema ne solleva uno maggiore: è moralmente lecito il “cambiamento” di sesso o la cosiddetta “transizione” o “riassegnazione”? Uso le virgolette per segnalare che si tratta di un cambiamento solo per modo di dire. La persona umana è sessuata in qualsiasi sua cellula: la coppia cromosomica 23 XX per la femmina e XY per il maschio è presente in ogni cellula del nostro corpo. Questa coppia costituisce la base della condizione sessuale, è l’aspetto genetico-cromosomico da cui deriva quello gonadico (ovaie per la femmina e testicoli per il maschio).
Dall’aspetto gonadico deriva il sesso ormonale, da quello ormonale deriva il sesso anatomico-funzionale e infine quello psicologico, cioè il percepire se stessi come maschio o come femmina. Gli interventi di “riassegnazione” consistono nell’asportare gli organi sessuali interni ed esterni e nel costruire qualcosa che assomiglia agli organi sessuali del sesso desiderato.
Il primo aspetto problematico è proprio questo: distruggo irreversibilmente tessuti e organi sani. Il secondo aspetto è che il disturbo della disforia di genere è di ordine psicologico: il soggetto riconosce il corpo nella sua reale morfologia, ma lo vive come estraneo, non lo accetta e lo rifiuta. È un problema di identità psicologica, riguarda la coscienza dell’io e la continuità dell’io nella corporeità, perché la corporeità sono io. L’intervento di “riassegnazione” non si porta sul piano psicologico, e quindi non centra il bersaglio.
Il nostro tema ci induce a riflettere sulla visione antropologica della sessualità e quindi dell’essere uomo e dell’essere donna: io sono il mio corpo; e non è vero dire «io ho il mio corpo». Il corpo costituisce me stesso, cioè contribuisce all’identificazione di me in modo costitutivo e irrinunciabile, e non è qualcosa di provvisorio, di accidentale e modificabile a piacere, né è un aspetto formale ed esteriore. La medicina è chiamata a rispettare la corporeità e non arrogarsi il diritto di manipolare il corpo. La prima terapia è il rispetto del corpo e della sua integrità - ripeto - perché il corpo sono io.
Alla luce di questi principi di ragionevolezza pratica il “cambiamento” di sesso non è mai lecito. Poi, per chi è credente ricordo quanto insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II nella Costituzione Gaudium et spes (n. 14): la persona umana è «corpore et anima unus», cioè un tutt’uno inscindibile di corpo e anima. E perciò sono convinto che accettare la pratica della distruzione di organi sani e della costruzione del “sembiante” di organi del sesso opposto, contraddice quanto la Chiesa insegna e crede circa l’unità della persona umana. Accettare la prassi della “riassegnazione” del sesso significa ammettere che la persona umana non è unità, ma è solo anima, o meglio semplice percezione di sé, fascio di emozioni o percezioni e che il corpo non è portatore di alcun senso.
La soluzione umanamente adeguata al nostro tema mi sembra che possa essere rintracciata nell’amore e nell’obbedienza. Nell’obbedienza a Dio Creatore e al dato creaturale che è tutta la mia persona anima e corpo. Obbedienza deriva da ob-audire, cioè ascoltare: comporta il saper ascoltare quanto la nostra dimensione corporea ci manifesta. Nell’amore che inizia con l’accettazione e termina con il ringraziamento al Creatore stesso.
Infine, mi sia consentito enunciare un sospetto molto provocatorio - sospetto però sufficientemente documentato da quanto scrive Renzo Puccetti nel suo illuminante testo Leggender metropolitane (Edizioni Studio Domenicano) - al di là della sofferenza esistenziale che va tutta compresa e lenita: la prassi del “cambiamento” di sesso e del trans-gender è una moda creata ad arte, facendo «pressione sull’Organizzazione Mondiale della Sanità» e proponendo la normalizzazione di un disturbo psicologico e un’idea di persona umana che è tutta e solo auto-percezione.