Good Friday by Ermes Dovico
AUTORI DEL '900/BALLESTRINI

Lo scrittore vittima del complesso di Babele

Esponente della Neoavanguardia, marxista convinto, ha espresso nelle sue opere il mito comunista del mondo buono e perfetto.

Culture 18_11_2011
Ballestrini
In Occidente l’ideologia marxista non tramonterà neanche dopo che alla morte di Stalin (1953) vennero alla luce i milioni di morti di cui il capo sovietico si era macchiato o ancora dopo i fatti di Budapest (1956) oppure dopo la primavera di Praga (1968). Anzi, il giudizio sui milioni di morti dell’URSS di Stalin piuttosto che della Cina di Mao Tse Tung si traduce spesso nella convinzione che il vero comunismo non è ancora stato realizzato storicamente. Insomma il comunismo sarebbe una conquista da raggiungere, piuttosto che un’ideologia che ha mostrato il suo fallimento in tutto il mondo.

Così, nel 1971 lo scrittore Nanni Balestrini
(1935) scrive per la prima volta in Italia un romanzo incentrato sulla rivoluzione operaia, dopo aver aderito al gruppo della sinistra extraparlamentare denominato Potere operaio, a cui appartiene anche Toni Negri.

Il titolo del romanzo è emblematico: Vogliamo tutto. Un operaio meridionale immigra a Torino e inizia a lavorare nella FIAT. Ivi scopre l’iniquità del sistema di fabbrica, la fatica del lavoro duro e sottopagato, l’iniquità degli stessi sindacati e del partito comunista, che preferisce operai accondiscendenti e accomodanti piuttosto che lavoratori coscienti e combattenti. Così, in maniera quasi involontaria, quasi come quel Renzo dei Promessi sposi che si trova suo malgrado all’interno dei tumulti di Milano, anche lui scopre dentro di sé l’audacia di chi non è cresciuto nella fabbrica e può dire ai suoi compagni: «Ma siete degli stronzi voi siete degli schiavi. Qua bisogna picchiarli a sti guardioni qua a sti fascisti. […] E qua dentro ci vogliono comandare. […] Sono più liberi quelli che stanno in galera di noi. Qua incatenati a queste macchine schifose». Lavora sempre più controvoglia, perché vuole solo lottare. «Ogni suo rapporto con il mondo è regolato dall’ideologia della legnata in testa e sono più quelle che prende che quelle che dà». Arringa gli operai sostenendo che tutto deve cambiare, perché altrimenti saranno sempre loro, gli operai, a stare peggio. La vita diventa una lotta contro qualcuno, non un sacrificio e una fatica per amore di qualcuno tanto che grida a gran voce: «In quel tranello non ci caschiamo più perché proprio non siamo lo stesso corpo noi e loro. Non abbiamo niente in comune siamo due mondi diversi siamo nemici e basta noi e loro […]. Col lavoro dei padroni e con lo Stato dei padroni noi non abbiamo nessun interesse comune».

Non è un desiderio di giustizia, non è un ideale buono a muovere l’azione, ma la stessa brama di potere così criticata quando vista negli occhi altrui. Così il protagonista verso la fine della storia può dire: «Adesso noi dobbiamo passare dalla lotta per il salario alla lotta per il potere. Compagni rifiutiamo il lavoro. Vogliamo tutto il potere vogliamo tutta la ricchezza. […] Dobbiamo lottare contro uno Stato fondato sul lavoro. Diciamo: Sì alla violenza operaia». La violenza così investe lo stesso sistema, gli stessi interpreti dell’ideologia, così come nella Rivoluzione francese il terrore fagociterà in poco tempo i suoi stessi promotori. È una violenza iconoclasta, gratuita, che annulla ogni possibilità di comunicazione e afferma il rumore, il caos, il ritorno alla legge delle belve. Così Balestrini racconta i fatti: «Picchiavamo a calci contro i cassoni del materiale per fare rumore un rumore cupo violento dududu dududu dududu e per due ore a fare questo casino. Poi ogni tanto facevamo delle assemblee […] gridando tutti insieme: più soldi meno lavoro. Oppure: Vogliamo tutto».

Il protagonista non diventa più umano, non coglie più in profondità la sua domanda di vita, il suo desiderio di felicità. Oppositore e accusatore del sistema, vuole sostituirsi ai capi, vuole diventare detentore del potere. Non si accorge, però, che ha già perso la lotta. Schiavo del meccanismo come gli altri, ma poco consapevole, potrà vantarsi di essere fautore di una stagione nuova, di una coscienza operaia diversa. Ma è solo una vana illusione già vista nella storia. Nel 1961, dieci anni prima della pubblicazione di Vogliamo tutto, Ballestrini e Alfredo Giuliani curano l’antologia di poesie sperimentali I novissimi che raccoglie, oltre ai loro, anche componimenti di Elio Pagliarani, Antonio Porta e di Edoardo Sanguineti. Questi autori costituiranno più tardi il Gruppo ’63 nello stesso anno in cui Ballestrini pubblicherà la sua prima raccolta di poesie Come si agisce. Scrive Alfredo Giuliani nella prefazione alla seconda edizione dei Novissimi che la poesia è «mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato». E ancora: «Il nostro compito è di trattare la lingua comune con la stessa intensità che se fosse la lingua poetica della tradizione e di portare quest'ultima a misurarsi con la vita contemporanea».

La poesia deve operare sul linguaggio «straniandolo dalle sue proprietà semantiche, lacerandone il tessuto sintattico, scomponendone l’armonia, e ricostruendolo in ordini provvisori». Chiaro in questi proclami è il richiamo all’Avanguardia futurista, che Sanguineti individuerà addirittura come movimento fondamentale del secolo ventesimo. Scrive Ballestrini nella poesia «Abbasso l’America»: «Gli stui si rendente to della discrepan/ trattare i soggettgetti scup del/ l’antico enuovo testamendice trattamento/ deve e in ma il soggea ela/ zioni tra dio e l’uomo nonché fra l/ suo vicinuesti temi». L’incomprensibilità di questi versi ci fa dubitare dell’affermazione di Giuliani secondo la quale la poesia è «l’estremo tentativo di conferire un senso all’insensatezza quotidiana». Al contrario, questa poetica, che riprende le parole in libertà e le libere associazioni, è il correlato linguistico della percezione dello scrittore dell’assurdità della vita e della convinzione che la realtà sia un magma caotico. La poesia non racconta più, non deve più dire e comunicare, ma secondo il poeta «agire», come del resto recita il titolo della prima raccolta.

Il linguaggio della tradizione non può più essere utilizzato nella poesia, sentito ormai come obsoleto e antiquato. Ormai adoperato anche nelle pubblicità e nelle forme di comunicazione più contemporanee, che senso può mai avere oggi la lingua poetica tradizionale? La destrutturazione del linguaggio è già un chiaro segno di ribellione, la più blasfema e iconoclasta, perché dissolve ogni possibilità di dialogo e di comunicazione. L’obiettivo polemico è già evidente nel titolo della poesia riportata e nelle parole «Antico e Nuovo Testamento»: una tradizione occidentale fondata sulla parola e sulla parabola, sul verbum che si è fatto carne.

Proprio la Bibbia, con l’episodio della Torre di Babele, ci aiuta a capire che quando l’uomo sostituisce se stesso a Dio, nella presunzione di poter realizzare il mondo buono e perfetto come nel romanzo Vogliamo tutto, allora in poco tempo l’azione si traduce in violenza, significativamente espressa nelle poesie della Neoavanguardia nella stessa distruzione non solo della sintassi, ma addirittura della parola. L’uomo perde così il dono ricevuto da Dio di poter nominare le cose, come detto nella Genesi. Nei decenni successivi, lungi dall’allontanarsi dalle convinzioni maturate con il Gruppo ’63, Ballestrini rinnoverà il suo desiderio di promuovere lo sperimentalismo della Neovanguardia e pubblicizzerà le celebrazioni dei decennali della nascita del Movimento (l’ultima commemorazione avviene nel quarantennale nel 2003).