Le mani dell'Ue sul nostro Parlamento
Con la riforma l’espressione “ordinamento comunitario” è sostituita da “ordinamento dell’Ue”: è la stessa cosa? Il rischio che si configura è di considerare come vincolante ogni atto dell’Unione facendo leva sul ritornello “l’Europa ce lo chiede”.
-UN PARLAMENTO PIU' FRAGILE di Aldo Ciappi*
Con due distinti interventi degli avvocati Maria Letizia Russo e Aldo Ciappi prosegue la collaborazione del Centro studi Livatino (www.centrostudilivatino.it) tesa a illustrare i passaggi più significativi della riforma costituzionale e a sottolinearne i profili problematici, allo scopo di avvicinarsi alla scadenza del voto referendario avendo consapevolezza dei contenuti delle modifiche, e lasciando da parte gli slogan. Gli interventi sono pubblicati ogni lunedì e giovedì. Quelli che compaiono oggi toccano l’aspetto del rapporto che con la riforma si configura fra Unione europea e ordinamento italiano. Ricordiamo che, trattandosi di referendum confermativo, non è necessario il quorum: chi non condivide la riforma non può confidare su un numero elevato di astenuti: la sola strada per manifestare il proprio dissenso è votare No.
Uno degli aspetti meno approfonditi della riforma costituzionale è quello del rapporto fra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento europeo. Un tema che avrebbe richiesto una trattazione non rapida - a causa dei problemi che finora ha fatto emergere - è invece affrontato con un cenno; per il nuovo art. 117 Cost. che recita: La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea e dagli obblighi internazionali.
In realtà la formulazione dell’art. 117 Cost. antecedente alla riforma prevedeva il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi comunitari, tra i quali ovviamente rientrano quelli derivanti dall’appartenenza all’UE, ma numerose pronunce della Corte costituzionale italiana (per tutte sentenza n. 170/1984 sent. Granital) hanno sancito che le fonti del diritto italiane, ossia gli atti normativi, includono a pieno titolo le fonti comunitarie. Ciò non comporta in automatico una perdita di sovranità, che comunque permane in determinate materie, perché la sovranità medesima si è “autolimitata” al momento della adesione all’UE e ai suoi trattati. Con la riforma l’espressione “ordinamento comunitario” è sostituita dalla espressione “ordinamento dell’Unione Europea”: è la stessa cosa?
La novità non appare irrilevante. Il rischio che a mio avviso si configura è di considerare come vincolante ogni atto dell’Unione; e con questo di fornire al Governo nazionale il pretesto per emanare leggi, anche divisive, facendo leva sul ritornello “l’Europa ce lo chiede”: ciò pur se la presunta richiesta deriva da un atto - potrebbe essere una semplice raccomandazione - privo di valore vincolante. L’espressione - finora in vigore - “ordinamento comunitario” rinvia a un sistema di organi e di competenze articolato e definito: ne consegue che obbligatorietà nell’ordinamento italiano delle fonti comunitarie si ricollega in modo distinto a ciascuna singola fonte, e quindi all’istituzione che ha emanato la norma (regolamento o direttiva) e alla competenza per materia. L’espressione “ordinamento dell’Unione Europea” è invece più generico. Alla fine, se il Governo nazionale sottoponesse al Parlamento il recepimento di una regola comunitaria, considerandola vincolante, in quanto diretta applicazione della Carta Costituzionale novellata, si potrebbe venire a creare una prassi di automatico recepimento di tutto ciò che proviene dall’UE, difficile da smantellare.
In queste rapide considerazioni si paventano dei rischi. Ma proprio perché non esistono certezze, sarebbe necessario un approfondimento serio, invece della smania di approvare a tutti i costi una riforma che semina problemi per ogni espressione che adopera.
*Centro studi Livatino