AUTORI DEL '900/ ADA NEGRI
L'attesa tremante di una felicità eterna
Un'immeritata censura colpisce tuttora una delle poche poetesse della nostra letteratura, una donna che ha tradotto in versi sublimi il desiderio di infinito.
Culture
15_10_2011
A soli ventidue anni (1892) Ada Negri già pubblicava la sua prima raccolta Fatalità per Treves, una delle maggiori case editrici dell’epoca. L’anno precedente era uscita la prima raccolta del trentaseienne Pascoli (Myricae). Sofia Bisi Albini parlò di «poesia impressionistica» al riguardo dei componimenti della Negri recensendo la sua raccolta su Il Corriere della Sera, mentre già nel 1894 le veniva assegnato il premio Giannina Milly, primo di tanti riconoscimenti. L’anno successivo usciva la seconda raccolta, Tempeste. Una vita intensa e dai toni profondamente drammatici caratterizza questi anni: il matrimonio, la nascita di un primo figlio e, poi, di Vittoria che morirà a solo un mese (1900), la morte del fratello (1903). Seguiranno la raccolta Maternità (1904), la separazione dal marito, la sua attività umanitaria, altre sillogi di poesie, di racconti, il romanzo autobiografico. Il premio Mussolini (1931) non è che il preludio all’apoteosi: la medaglia d’oro del Ministero dell’educazione (1938) e la nomina ad accademica d’Italia (1940), prima ed unica donna ad ottenere un simile riconoscimento.
La natura umana è desiderio di compimento e di risposta alla domanda di felicità e di amore. Per questo la vita è attesa di un’avventura, nel senso etimologico del termine, attesa di qualcosa che, non costruito e non progettato da noi, irrompa e sopraggiunga dall’esterno. La poesia di Ada Negri vive di questa consapevolezza e si traduce spesso nell’attesa di un amore pieno. Nel componimento «A colui che non è venuto» la poetessa scrive: «Io t’aspettavo fin dal giorno in cui/di fiorire m’accorsi all’improvviso,/ primula di marzo. E venne uno, con viso/dolce. Ma io mi dissi: «Non è lui».//Pioggia e sol, spine e rose, fieno e paglia/m’apportarono gli anni. Anche l’amore./Non te!... Qualcun ti assomigliò, che il cuore/aggrovigliar mi seppe in gemmea maglia://ed io mi persi a capofitto, giù,/col desiderio folle d’annientarmi/tra forti braccia che potean spezzarmi/come la creta. – Ma non eri tu. –». La poetessa si sente nata per questo sconosciuto e ignoto amante. Lo sconforto per l’unione impossibile («Non venisti, non vieni, non t’attendo/ più. Domani morrò. La vita ha fretta») non riesce a spegnere la fiamma e la segreta speranza che un giorno l’amore sarà totale: «Ma forse/ di là, nell’ombra ove uno spirito tocca/l’altro in silenzio, io troverò la bocca/ che solo in sogno la mia bocca morse».
Questo desiderio di infinito, di pienezza, di senso, di capire dove stiamo andando, questo abisso di vita, di pienezza, di non accontentarsi è la vera statura dell’uomo. La poesia appartiene alla raccolta Esilio (1914). La poetessa si è appena separata dal marito e dall’anno successivo si dedicherà in maniera indefessa all’assistenza ai feriti di guerra della Prima guerra mondiale. Vent’anni più tardi, nella raccolta Il dono (1935), nella poesia che dà il nome all’intera silloge, Ada Negri manifesta la stessa attesa: «Il dono eccelso che di giorno in giorno/ e d’anno in anno da te attesi, o vita/ (e per esso, lo sai, mi fu dolcezza/ anche il pianto), non venne: ancor non venne. Ad ogni alba che spunta io dico: “È oggi”: ad ogni giorno che tramonta io dico: “Sarà domani”».
La giovinezza è un atteggiamento del cuore, non un dato anagrafico. Ci sono cuori che vivono pieni di domanda e di attesa e altri che, già a vent’anni, non si aspettano più nulla. Ada Negri è testimone che la facoltà di sorprendersi è l’atteggiamento proprio della giovinezza che può permanere nel cuore, anche quando l’età avanza. La giovinezza è, infatti, una dimensione dello spirito. La poetessa lo esprime molto bene in «Mia giovinezza», appartenente a Fons amoris (1939-1943). Ada Negri scrive, rivolgendosi alla gioventù: «Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo/all’essere. Sei tu, ma un’altra sei:/senza fronda né fior, senza il lucente/ riso che avevi al tempo che non torna,/ senza quel canto. Un’altra sei, più bella».
Questa giovinezza, non più accompagnata dall’appariscenza esteriore, è divenuta più consapevole e si è fortificata nel dolore, più capace di riconoscenza e di gratitudine, piena di speranza, fiduciosa e tesa a ciò che non inganna e non passa: «Ami, e non pensi esser amata: ad ogni/ fiore che sboccia o frutto che rosseggia/o pargolo che nasce, al Dio dei campi/ e delle stirpi rendi grazie in cuore./ Anno per anno, entro di te, mutasti/ volto e sostanza. Ogni dolor più salda/ ti rese: ad ogni traccia del passaggio/ dei giorni, una tua linfa occulta e verde/ opponesti a riparo. Or guardi al Lume/ che non inganna: nel suo specchio miri/ la durabile vita. E sei rimasta/ come un’età che non ha nome: umana/ fra le umane miserie, e pur vivente/ di Dio soltanto e solo in Lui felice.// O giovinezza senza tempo, o sempre/ rinnovata speranza, io ti commetto/ a color che verranno: - infin che in terra/ torni a fiorir la primavera, e in cielo/ nascano le stelle quand’è spento il sole». In realtà l’atteggiamento di domanda stupita non è naturale solo del bambino, non è fanciullesco, ma è proprio di una persona che sia interessata al reale, cioè che sia pienamente coinvolta nella vita.
Lo stupore non ci fa fermare all’immagine immediata, ma ci sprona ad andare oltre l’apparenza, a cogliere per così dire l’oltranza, il significato, la ragione, la provenienza di ciò che vediamo e che accade. Allora l’atto della conoscenza diventa un impeto, un movimento, una tensione e una propensione verso il Mistero che si coglie nella realtà e che si desidera conoscere. Nella poesia di Ada Negri questa tensione si tramuta, spesso, in preghiera: «Fammi uguale, Signore, a quelle foglie/ moribonde che vedo oggi nel sole/ tremar dell’olmo sul più alto ramo./ Tremano, sì, ma non di pena: è tanto/ limpido il sole, e dolce il distaccarsi/ dal ramo per congiungersi alla terra» (da «Pensiero d’autunno» appartenente alla raccolta Vespertina del 1930).
Quello della foglia è un movimento delicato di ritorno a casa. Il tramonto della vita è l’avvicinarsi al Mistero che la poetessa ama con tutto il cuore tanto che confessa in «Atto d’amore» (Il dono 1935): «Non seppi dirti quant’io t’amo, Dio/ nel quale credo, Dio che sei la vita/ vivente, e quella già vissuta e quella/ ch’è da viver più oltre».