La risposta che il «pirandellismo» non contempla
Tra le opere di Pirandello ce n'è una di cui il libri di testo non parlano mai. È il Lazzaro, dove affronta la questione della fede e del cristianesimo. Quella in cui «do la risposta più netta al dissidio fondamentale del mio teatro: Cristo è carità, amore». E in quell'amore è risolto ogni conflitto.
«Forse non esiste scrittore più sconosciuto di uno scrittore celebre!» sottolinea Pirandello in un articolo a pochi noto del 5 dicembre 1931. E come nasce la celebrità? «Nasce il giorno in cui, non si sa come né perché, il nome di uno scrittore si stacca dalle sue opere, mette le ali e spicca il volo. Il nome! ... Le opere sono molto più serie: non volano, ma camminano a piedi, e per conto loro, con il loro peso e il loro valore, a passi lenti». Così, mentre il nome di Pirandello è a Parigi e ha girato tutto il mondo, le sue opere letterarie «continuano a piedi la loro strada, a passi pesanti, e sono naturalmente rimaste indietro».
Con queste parole Pirandello stesso ci invita ad uscire dalle regole, dagli schemi, dalle interpretazioni canoniche all’interno delle quali la sua produzione è stata irretita, a sfatare il «pirandellismo» (la cosiddetta filosofia pirandelliana rinchiusa nelle definizioni da libro) per riscoprire la complessità della sua ricerca. «Abbasso il pirandellismo» grida lo scrittore nello stesso articolo: «(La mia) opera trova già prevenuti tanto il giudizio della critica quanto l’attesa del pubblico, per colpa di tutte quelle concezioni astratte e stravaganti sulla realtà e la finzione, sul valore della personalità […] che non sono altro se non le deformazioni cristallizzate di due o tre delle mie commedie, di quelle due o tre che sono arrivate per prime a Parigi».
Così Pirandello è di solito spiegato con le parole «persona», «personaggio», «relativismo», «crisi delle certezze», «metateatro» e tante altre ancora che compaiono nei testi scolastici, che, se da un lato sono senz’altro utili per semplificare la vastità e la complessità del suo pensiero e della sua opera, dall’altro rischiano di contraddire l’idea stessa pirandelliana che la vita è un flusso continuo e che l’io non è riducibile a norme e forme. Movimento, ricerca, domanda caratterizzano un io che è assetato di conoscere le ragioni e le origini del tutto, la sostanza che è dentro o aldilà dell’apparenza. In questo senso la religiosità attraversa tutta l’opera pirandelliana (basti citare, solo per fare qualche celebre esempio, Il fu Mattia Pascal, I quaderni di Serafino Gubbio operatore, I sei personaggi in cerca d’autore).
Pirandello è alla ricerca del lanternone che si è spento nell’epoca contemporanea, lasciando tutti soli con il loro lanternino. Questa ricerca sembra più stringente nelle ultime opere teatrali, in particolare nella trilogia del mito, La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna, laddove lo scrittore cerca delle certezze rispettivamente nell’ambito socio-politico, in quello religioso e in quello artistico. A noi interessa qui soffermarci sul Lazzaro in cui Pirandello affronta la questione della fede e del cristianesimo. Chi avrebbe mai detto che si potesse indagare la produzione di Pirandello secondo una tale prospettiva?
Ma chi conosce il Lazzaro? Qualche libro di testo ne parla? Protagonista del dramma è Diego Spina, che ha cresciuto i figli con una rigida educazione moralistica, rivolta più all’altra vita che a questa. Il figlio Lucio già a sei anni si ritrova in seminario per diventare prete. Non concorde con questa impostazione educativa, la moglie Sara lascia il marito. Dalla nuova relazione con il fattore di campagna Arcadipane ha due altri figli. La scena si movimenta quando Lucio ritorna a casa dopo anni di seminario, perché ha deciso di non seguire la strada imposta dal padre che, nel frattempo, vuol far costruire un ospizio nella sua tenuta, proprio là dove la ex-moglie risiede con il nuovo compagno. La decisione di Diego comporterà evidentemente la scacciata di Sara e di Arcadipane. Quando viene a sapere della scelta del figlio, Diego si uccide buttandosi sotto una macchina.
Dopo l’accertamento della morte da parte di due medici, Diego riprende a vivere, ma perde la fede, perché non ricorda nulla di quanto c’era nell’aldilà, segno per lui che non esiste l’altra vita. Lucio, invece, vede nell’accaduto l’intervento di Dio, recupera la fede e decide di ritornare in seminario. Confiderà alla sorellina Lia: «Ridare le ali a chi sono mancati i piedi per camminare sulla Terra [… ]. Ora intendo e sento veramente la parola di Cristo: Carità. Perché gli uomini non possono star tutti e sempre in piedi, Dio stesso vuole in terra la sua casa che prometta la vera vita di là […]. Ora mi sento degno di nuovo di rindossare l’abito per il divino sacrificio di Cristo e per la fede degli altri».
Non cogliendo più le ragioni di nulla, Diego sente ormai di poter commettere qualsiasi azione (le sue parole riecheggiano quelle di Dostoevskij «Se Dio non c’è, tutto è permesso!») e cerca, così, di vendicarsi di Arcadipane. Gli spara, ferendolo solo lievemente. Lucio sarà lo strumento di Dio che ridarà la fede al padre. Gli spiegherà che Dio può non concedere all’uomo che ritorna in vita di ricordare quello che ci sia nell’aldilà. Lo distoglie da una logica razionalistica che pretenderebbe di giudicare e comprendere totalmente le vie di Dio con la nostra ragione e lo dischiude ad una visione più profonda nella fede: «Tu avevi chiuso gli occhi alla vita credendo di dover vedere l’altra di là. Questo è stato il tuo castigo. Ora devi vivere la vita e lasciarla vivere agli altri […]. Se ora questo tuo male io l’accetto e lo sento, lo sento come un bene, come un bene per me, questo è Dio, vedi». Il padre è chiamato alla conversione da un cristianesimo iniziale che lo portava a disprezzare questa vita in nome dell’altra ad una fede nel Cristo vivo che ci induce a valorizzare tutto quanto uno vive già in questa vita. Lucio esorterà, poi, anche la sorellina Lia, paralitica, a rialzarsi. Nella sorpresa di tutti lei riprende a camminare.
L’uomo può sempre rialzarsi solo in virtù di una presenza. Lucio, Diego, Lia e tutti coloro che hanno assistito a questi fatti sono stati investiti dalla totale carità dell’Essere. La carità è la legge della realtà e, nel contempo, la legge profonda del cuore dell’uomo. Per questo motivo l’uomo trova una soddisfazione nell’adesione a questa profonda legge dell’Essere, perché la legge del cuore coincide con la legge del reale.
Taluni critici non hanno letto in quest’opera la speranza che può solo nascere dall’incontro con la risposta alle domande dell’uomo, bensì vi hanno visto una conferma dell’ateismo di Pirandello, della sua incapacità ad arrivare ad una certezza, del relativismo gnoseologico. Spesso interessa agli studiosi e ai lettori più il giudizio dei critici che quello dell’autore, un po’ come per I Promessi sposi di cui gli studenti conoscono (quando va bene) le interpretazioni critiche sulla provvidenza, ma non il sugo della storia collocato alla fine del romanzo. Nel caso di Pirandello e a proposito del Lazzaro vale la pena ricordare che c’è una intervista rilasciata dallo scrittore a Carlo Cavicchioli (più nota rispetto all’articolo citato in apertura, ma che non compare mai sui libri di testo), pochi mesi prima della sua morte nel 1936.
Pirandello afferma: «Nel Lazzaro do la risposta più netta al dissidio fondamentale del mio teatro: Cristo è carità, amore. Solo dall’amore che comprende, e sa tenere il giusto mezzo fra ordine e anarchia, fra forma e vita, è risolto il conflitto. Sono anche lieto che nessuna autorità religiosa abbia trovato da condannare. […] La «Civiltà Cattolica» ne ha parlato a fondo […] e conviene della sua perfetta ortodossia […] Perfetta ortodossia in quanto posizione di problemi. E tali problemi non comportano che una soluzione cristiana». Il problema antropologico, la frantumazione dell’io, la crisi delle certezze, che sono state analizzate da Pirandello in tanta parte della sua produzione, trovano una soluzione in Cristo. Di questo Pirandello afferma di aver parlato con maggiore chiarezza nel dramma Lazzaro. Mi sembrano parole eloquenti.