St. John the Evangelist by Ermes Dovico

LA TESTIMONIANZA

«Io confessore a Shalom vi dico che qui si rinasce»

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«Posso solo ringraziare Dio che mi fa vivere queste esperienze; la Suora che si fida di me e mi affida i suoi ragazzi; i ragazzi stessi che si fidano e nel sacramento realmente mi parlano come se stessero rivolgendosi direttamente al Signore, con fiducia e trasparenza. Non ho visto gli orrori. In un luogo come questo tocchi il confine con l'inferno, ma qui vi assicuro che si rinasce». La testimonianza di don Marco, confessore della Comunità Shalom.

Ecclesia 02_05_2023

Caro direttore
Ho seguito con un certo dispiacere le puntate scandalistiche che La7 ha trasmesso ai danni della Comunità Shalom e di suor Rosalina Ravasio, trovando grottesche e alienanti le ricostruzioni fatte dai giornalisti.

Sono un docente, frequento la Comunità da dieci anni, gli incontri con i ragazzi di suor Rosalina sono sempre stati occasione di grande formazione e arricchimento per me, per i colleghi docenti che assistevano e ovviamente per gli alunni che potevano godere di testimonianze intense e costruttivamente provocatorie.

Ma fin qui non faccio che ripetere la testimonianza di migliaia di persone che hanno conosciuto e frequentato la Comunità in questi anni.

La pretesa di La7 è quella di aver mostrato il lato nascosto della Comunità, quasi che in assenza di ospiti e visitatori la vita alla Shalom cambi radicalmente e i giovani incontrati come testimoni di belle qualità e di ritrovati ideali si trasformino in aguzzini isterici e violenti.

“Tu non sai cosa succede lì quando si chiudono i cancelli”. Questo è lo slogan che sintetizza le puntate televisive su La7 e che potrebbe essere rivolto anche contro di me: “Tu non sai cosa succede lì quando si chiudono i cancelli”. Peccato che questo non sia corretto. Certo, come docente ho accompagnato parecchie scolaresche a conoscere la realtà di suor Rosalina e ad assistere alla sua Comunità nel ruolo di ospite esterno e passeggero. Ma come sacerdote ho avuto modo di inserirmi nella vita comunitaria a un livello del tutto diverso: io ho avuto la possibilità di essere lì proprio quando si chiudevano i cancelli. E lì dentro ho visto un po’ di tutto, anche momenti di litigio e di tensione, anche momenti di fatica e crisi. Però non ho visto gli orrori.

Quando ho scoperto come era stato costruito il servizio giornalistico mi è venuto quasi da sorridere interiormente. L’inviata di Fanpage infatti si è intrufolata nella Comunità fingendo di essere una giovane in ricerca vocazionale e così ha potuto introdursi nella vita ordinaria, esplorare la comunità a porte chiuse e raccogliere qualche frammento di video utile ai propri scopi commerciali e politici (mi pare che i servizi di La7 servano bene a tali due scopi, non a quello informativo e veritativo). Ebbene, pochi mesi prima di tale signorina, io stesso ho vissuto un percorso simile, solo che il mio è stato un percorso autentico.

Ho iniziato a frequentare sempre più assiduamente la Comunità nel ruolo di confessore delle ragazze e dei ragazzi ospiti. A un certo punto mi sono chiesto se il Signore non mi stesse chiamando a fare una scelta radicale di donazione a questa realtà. Ho quindi avviato un discernimento con la Suora, col mio Provinciale, includendo nel confronto almeno una decina di persone a diverso livello. È in tale periodo che ho potuto trascorrere lungo tempo in questa Comunità: giornate di festa e di feria; notti di permanenza; viaggi; momenti di preghiera; occasioni di svago; solennità; eventi musicali. Tutto è documentato a livello di ricordi personali (i diari intensi di quelle settimane) e registrazioni pubbliche (dei concerti per esempio, nei quali sono intervenuto come musicista invitato).

Ho visto i momenti di litigio, dicevo. Ho assistito alle crisi. Mi sono spaventato anche io la prima volta in cui, nel buio della sera, ho sentito le urla liberatorie legate alle terapia tedesca (“Anche io ce la posso fare!”). Durano quaranta secondi circa, per la cronaca. Ho chiesto incuriosito perché ‘quella’ ragazza portava la carriola, perché ‘quel’ ragazzo spostava bancali. Le suore e gli operatori mi hanno dato le loro risposte. Man mano che diventavo di famiglia ho potuto iniziare a girare con libertà negli spazi comunitari: nessuno mi ha mai fermato e spesso sono arrivato di sorpresa in luoghi inattesi. Ho potuto sentire i pareri dei ragazzi e delle ragazze, nei momenti in cui non si sentivano osservati, e la loro versione era identica a quella delle suore e degli operatori.

E soprattutto, come dicevo, io di orrori non ne ho visti. Ho visto i litigi, lo ripeto per la terza volta; ho visto gli operatori estenuati per l’ennesima situazione difficile da gestire; ho visto come poi, grazie all’aiuto di tutti e grazie alla tempra e costanza degli operatori stessi, tutto si risolveva in modo sereno. Io ho pure visto – e questo la giornalista di Fanpage non lo riporta, non so se per menzogna o perché non è una brava giornalista e non sa vedere le cose nella loro completezza – i momenti di gioia, di serenità, i momenti in cui si fa la pace.

È vero, a volte suore e operatori usano toni forti, mentre gestiscono questi grossi gruppi di ragazze e ragazzi con storie drammatiche e durissime e con caratteri altrettanto sfidanti. Ma queste suore e questi operatori sanno anche chiedere scusa, sanno mettersi in discussione e lo fanno con una radicalità che difficilmente ho incontrato altrove. Soprattutto, queste suore e questi operatori amano i ragazzi che gli sono affidati (giornalisti, psichiatri e avversari della Comunità agiscono per amore? o per altro?). E ancora, le suore e gli operatori (particolarmente alcuni di essi) sono lì per quei ragazzi e per quelle ragazze 365 giorni all’anno, gratuitamente, senza spazi e tempi di vita privata.

Questo aspetto voglio riprenderlo e chiarirlo, riferendomi in particolare alla giornalista di Avvenire che si è permessa di prendere le distanze da suor Rosalina: queste consacrate non hanno durante il giorno dei tempi e degli spazi per sé, sono e devono essere costantemente a disposizione, sempre attente che non capitino incidenti, che non scoppino crisi, che non si creino tensioni. Lei, signora giornalista del cattolico Avvenire, conosce molti preti o suore capaci di vivere questo intenso livello di dedizione al prossimo? Io no. Io stesso non ne sarei capace.

Per andare a concludere, devo però aggiungere l’elemento più importante. C’è infatti una cosa, la più preziosa di tutte, che le telecamere non sono riuscite a cogliere. Questa cosa è il motivo che mi fa tornare continuamente alla Shalom anche in questi mesi, anche se ho chiarito che la mia vocazione non è radicarmi in quella Comunità, anche se io pure ho avuto periodi di incomprensione e di dissenso nelle mie relazioni con le consacrate e gli operatori, anche se andare nella “comunità degli orrori” potrebbe risultare ormai scomodo ed espormi ad attacchi giornalistici. Io sono un confessore.

E il confessore alla Shalom riceve un grande dono, perché può conoscere in profondità le ferite dei ragazzi e delle ragazze penitenti, può toccare a fondo di cosa è capace il Male quando entra nel cuore delle persone e soprattutto dei giovani. La Suora nei miei primi tempi, vedendomi talvolta scosso, diceva: “qui tocchi il confine con l’Inferno”. Non è una metafora, posso assicurarlo. E posso assicurare che di tali abissi, che si radicano nel passato degli ospiti comunitari, i testimoni esterni non colgono se non una minima parte. Il confessore invece raccoglie tutto: e non mi riferisco al fatto di scoprire cose fatte o accadute nel passato dei ragazzi, ma mi riferisco al fatto di accogliere in presa diretta e travolgente il dolore, la fatica, la fragilità, il vissuto intimo di queste persone.

Ma non finisce qui. Il confessore riceve un dono ancor maggiore: dopo due anni in cui regolarmente accompagno nel sacramento i medesimi penitenti, io posso vedere il cammino che fanno. E allora man mano raccolgo i passi di crescita, di risalita, la speranza che si riaccende, l’amore che ricomincia ad ardere in quei cuori feriti, i desideri, i progetti di bene e di restaurazione familiare. Non esagero se affermo che questo è un dono tra i più grandi che un sacerdote possa sperimentare e forse una tra le esperienze più alte che un uomo possa immaginare di vivere. Dico di più: se tanti bravi giovani lo scoprissero e lo comprendessero, io credo che le vocazioni al sacerdozio ricomincerebbero a crescere.

Per cui posso solo ringraziare Dio che mi fa vivere queste esperienze; la Suora che si fida di me – non senza avermi sottoposto a adeguato periodo di osservazione! – e mi affida i suoi ragazzi; i ragazzi stessi che si fidano e nel sacramento realmente mi parlano come se stessero rivolgendosi direttamente al Signore, con fiducia e trasparenza.

Morale della favola: c’è una certezza che nessuna trasmissione televisiva può minimamente scalfire. Questi ragazzi vivono autentici cammini di crescita spirituale, diventano capaci di riflessioni di una profondità che stupisce, crescono ad alti livelli di consapevolezza del male fatto, del cammino da fare, del bene cui tendere.

Personalmente reputo, e anche come docente ed educatore lavoro in tal senso, che la maturazione spirituale sia il segno di più alto sviluppo di una persona. Alla Shalom io tocco con mano ogni volta la consistenza robusta di veri cammini di maturazione spirituale, pur attraverso un altalenare di percorsi psicologici e relazionali. E allora la tesi è molto semplice: una comunità degli orrori non può generare simile maturazione spirituale. Ugualmente una blatta non può partorire un pavone, né un rovo può dare uva.

Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni” (Vangelo di San Matteo 7,15-20). Dai frutti riconosco la natura della Shalom. Ma dai frutti riconosco anche la natura di La7. Del resto il Cristo, il più grande terapeuta della storia, nonché autentico farmaco di salvezza (con buona pace degli psichiatri o atei o spiritualmente incompetenti interpellati da La7, secondo i quali Cristo non può essere una terapia – io rispetto la loro fede ma vi contrappongo la mia esperienza e testimonianza a riguardo) ci aveva ulteriormente avvisati: “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto” (Vangelo di San Giovanni 15,1).

Sono certo che suor Rosalina reggerà anche questa potatura, anche questa del resto è una fonte attraverso cui nutrire il cammino spirituale dei giovani che gratuitamente accoglie e che da quarant’anni restituisce alle famiglie e alla società come onesti cittadini e buoni cristiani.

Don Marco