Guerra "sporca" al celibato, i profeti scaldano motori
Il Sinodo sull’Amazzonia, nel quale si cercherà di introdurre un clero uxorato, è alle porte. Ed i suoi profeti iniziano a predicare. Come don Giovanni Nicolini, il prete dossettiano che parla di abolizione del celibato. Ma scivola - e parecchio - sulla storia e la teologia. A cominciare dalla negazione del dono del celibato, in aperta contraddizione con l'insegnamento di san Giovanni Paolo II.
-IL DOSSIER AMAZZONIA
Il Sinodo sull’Amazzonia, nel quale si cercherà di introdurre un clero uxorato, è alle porte. Ed i suoi profeti iniziano a predicare.
«La crisi del presbiterato inevitabilmente aumenterà finché non venga presa in considerazione sul serio il pensiero circa l’opportunità di abolire il celibato dei preti. Finché questo celibato dei preti resta, la discesa è inarrestabile”. Un’affermazione perentoria come questa avrebbe dovuto come minimo essere corroborata da dati, analisi, argomentazioni. Invece niente. Don Giovanni Nicolini (guarda qui il video), noto a Bologna come “il prete dei poveri”, fondatore e superiore delle Famiglie della Visitazione, di “derivazione” dossettiana, è un sacerdote a cui piace dialogare, aprire orizzonti, prospettive, porre domande più che risposte; almeno secondo quanto ha più volte ripetuto a La Nuova Bussola, che l’ha voluto contattare telefonicamente. Peccato che una frase tranchant, come quella riportata, ha poco del dialogico e molto del perentorio.
Allora, proviamo noi a riflettere e far riflettere. Per affermare che la persistenza dell’obbligo del celibato sia la ragione della crisi vocazionale attuale e addirittura del suo aumento – crisi che non vogliamo di certo contestare –, bisognerebbe verificare che, ovunque venga conservato il celibato, si assiste inesorabilmente al medesimo crollo.
Al ritorno dalla visita compiuta lo scorso anno alla Chiesa siro-malabarese, monsignor Cyril Vasil’, segretario per la Congregazione delle Chiese Orientali, ha potuto constatare l’incredibile espansione di questa realtà ecclesiale: «Attualmente, la Chiesa siro-malabarese conta sessantaquattro vescovi. Se pensiamo che cento anni fa ne aveva solo tre e il suo territorio era limitato a una piccola zona del Kerala, vediamo quale crescita ha avuto. [...] È una Chiesa giovane piena di vocazioni, con 8600 sacerdoti e 36000 religiose. In essa vige pure il celibato, che la Chiesa siro-malabarese considera come un suo patrimonio disciplinare, ma ciò non significa la mancanza delle vocazioni. La questione del celibato quindi non è determinante per ovviare alla carenza di vocazioni. Talvolta si indica come difficoltà della crescita della Chiesa l’obbligo vigente del celibato nella Chiesa latina». Il celibato sembra compatibile con l’aumento di vocazioni sacerdotali.
Facciamo ora la prova al contrario; proviamo a verificare se, laddove il celibato è stato reso non obbligatorio, si sia verificata una crescita vocazionale. Padre Chad Hatfield, preside del Seminario teologico ortodosso St. Vladimir, afferma che tutte le giurisdizioni ortodosse presenti nel Nord America soffrono di una grave crisi vocazionale. Se si rimane nel mondo delle Chiese orientali, che non è soggetto all’obbligo del celibato per i sacerdoti, spostandosi però questa volta in ambito cattolico, la situazione non migliora. Monsignor Sviatoslav Shevchuk, Arcivescovo maggiore di Kiev-Halych degli Ucraini e presidente del Sinodo della Chiesa Greco-cattolica Ucraina, ha fatto notare che, sebbene in Ucraina la Chiesa greco-cattolica non soffra una crisi vocazionale, tuttavia dalle altre parti, soprattutto negli Stati Uniti ed in Canada, la situazione è invece drammatica. Monsignor Shevchuk ha così invitato a riflettere (vedi qui) sul fatto che «la stessa chiesa con la stessa modalità di vivere la vocazione sacerdotale [ossia la possibilità di vivere lo stato coniugale], in altri paesi nel mondo non gode della stessa quantità di vocazioni». Da qui la logica conclusione: «La condizione coniugale non favorisce la crescita delle vocazioni al sacerdozio. Questa è la nostra esperienza».
Don Nicolini avrebbe dunque fatto meglio ad evitare di sparare certe sentenze quel tanto al chilo... La crisi delle vocazioni necessita di una riflessione seria, alla luce della fede e dell’identità del sacerdote, come Cristo l’ha incarnata e trasmessa. Le facili soluzioni non fanno altro che condannare a morte il malato; e il malato, in questo caso, è la Chiesa. Pensare di arrestare la crisi del sacerdozio allargando la base “arruolabile” sarebbe la fine; significherebbe contenere il sintomo, senza avere né diagnosi né terapie adeguate.
Non meno approssimativa è l’altra asserzione perentoria che don Nicolini propina ai suoi ascoltatori: «Il fatto di rimanere celibi è una pura disposizione disciplinare, giuridica. Non è un voto, non è un dono di Dio [...] Per regola non può sposarsi». Messa così, sembra che un bel giorno un papa, magari un po’ sessuofobo, abbia deciso che di punto in bianco i preti dovessero essere tutti celibi. E un branco di pecoroni gli abbia dato ragione.
La posizione di don Nicolini non è sostenibile né storicamente né teologicamente. Dal punto di vista storico emerge chiaramente che, se è vero che l’obbligo della condizione celibataria risulta piuttosto recente, la Chiesa ha invece sempre ritenuto la continenza come obbligo vincolante e l’ha riconosciuta di origine apostolica. Papa Siricio, nella decretale Directa, riguardo alla continenza afferma che i chierici maggiori sono vincolati insolubili lege, da una legge indissolubile. È dunque vero che la Chiesa nella sua storia ha ammesso al sacerdozio persone coniugate, ma non senza imporre loro, secondo l’insegnamento apostolico, l’obbligo della continenza. È ciò che emerge, tra le numerose testimonianze, dall’epistola indirizzata da san Leone Magno al vescovo di Narbonne nel 458/9: «La legge della continenza è la stessa per i ministri dell’altare, per i vescovi e per i presbiteri, i quali, finché erano laici o lettori, potevano liberamente prendere moglie e generare figli. Quando però hanno raggiunto i suddetti ordini, inizia a non essere più lecito quanto era [prima] permesso».
Dal punto di vista teologico ci sarebbe molto da dire; basti però quello che san Giovanni Paolo II scrisse nel paragrafo 50 della Pastores dabo vobis: «Il celibato sacerdotale non è da considerarsi come semplice norma giuridica, né come una condizione del tutto esteriore per essere ammessi all'ordinazione, bensì come un valore profondamente connesso con l'ordinazione sacra, che configura a Gesù Cristo buon Pastore e Sposo della Chiesa, e quindi come la scelta di un amore più grande e senza divisioni per Cristo e per la sua Chiesa nella disponibilità piena e gioiosa del cuore per il ministero pastorale. Il celibato è da considerare come una grazia speciale, come un dono». Insegnamento che si contrappone quasi parola per parola a quanto affermato da don Nicolini.