AUTORI DEL '900

Grazia Deledda, il nobel dimenticato

La scrittrice sarda racconta il peccato come prova che può esaltare la parte nobile dell'uomo: la consapevolezza del male compiuto diventa la possibilità di comprendere la necessità di una redenzione e di una salvezza che non possono che provenire da un Altro, a cui convertirsi.

Attualità 24_03_2012
Grazia Deledda

Scrittrice fecondissima, Grazia Deledda (1871-1936) si inserisce nella teoria dei letterati italiani che sono stati insigniti del Premio Nobel, che comprende G. Carducci (1906), L. Pirandello (1934), S. Quasimodo (1959), E. Montale (1975), Dario Fo (1997). È l’unica donna italiana presente nel novero.

Il fatto colpisce ancor più perché il Nobel le venne conferito nel 1926 prima che a Pirandello. Queste furono le ragioni del Nobel: «Per la sua ispirazione idealistica, scritta con ispirazione di plastica chiarezza della sua isola nativa con profonda comprensione degli umani problemi». Per questo interrogano sia l’oscurità in cui è caduta in questi decenni sia lo spazio pressoché assente a lei riservato negli studi superiori. Un rapido questionario condotto tra gli studenti ci testimonierebbe che quasi nessuno di loro ha mai sentito parlare della scrittrice sarda che ha composto trecentocinquanta novelle, trentacinque romanzi oltre che poesie. Molte sue opere, poi, sono state anche trasposte a livello cinematografico (tra queste Cenere, L’edera, Canne al vento).

Nella sua produzione «mentre c’è il riferimento preciso ad un ambiente reale e caratteristico, tale ambiente viene anche ad assumere una funzione rappresentativa di valori trascendenti ed eterni» (E. Gioanola). La Sardegna «si allontana in un’atmosfera di mito e leggenda, luogo simbolico dell’eterno dramma del vivere e del morire» (Gioanola). Diventa terra ancestrale, dalle leggi immodificabili.
Molti ricorderanno i protagonisti dei romanzi verghiani, quei «vinti» che sono costretti a soggiacere alla vita e al progresso, sia che cerchino di staccarsi dallo scoglio senza ottenere fortuna (è il caso del giovane ‘Ntoni dei Malavoglia del 1881) sia che riescano, invece, ad ottenere fortuna abbandonando la propria classe sociale, trovando, poi, solo solitudine (come accade a Mastro don Gesualdo). In Verga non pare, però, di avvertire un destino buono e positivo. Quel Padron ‘Ntoni che lavorerà assieme ai nipoti Alessi e Mena per riconquistare la casa del nespolo muore alla fine solo in un ospedale e rappresenta la religione del lavoro e della fatica. Quale sia il fine della sofferenza e della fatica non è dato capire. Chi legge non avverte una positività e una possibilità di riscatto. L’ostrica rimane attaccata allo scoglio perché altrimenti soccombe in mezzo al mare, preda dei pesci. La legge di natura porta alla sopravvivenza finché si è in questo mondo. Del dopo non si parla. Ad una redenzione già nell’al di qua non si fa riferimento.                                                             

Così, non è, però, nei romanzi della Deledda. Si prenda in considerazione, ad esempio, il suo romanzo più noto: Canne al vento (1913). Tre sorelle nobili della famiglia Pintor, Esther, Ruth e Noemi, vedono scemare le loro ricchezze. Rimane loro fedele il servo Efix, che nasconde un orribile segreto: ha ucciso anni addietro il padrone di casa, Don Zame, per permettere la fuga a Lia, la più giovane delle figlie del padrone, che lui ama segretamente. Nella fedeltà alla famiglia Pintor il servo sta compiendo un viaggio di espiazione ed «è come un pellegrino con la piccola bisaccia di lana sulle spalle e un bastone di sambuco in mano, diretto verso un luogo di penitenza: il mondo». Quando ritorna nella famiglia Pintor don Giacinto, figlio di Lia, che è dedito al gioco d’azzardo, Efix offre la propria fatica e sofferenza anche per lui.  Fino alla fine il servo si voterà alla felicità altrui, come quando Noemi si sta per sposare con don Predu e lui, ormai morente, cerca di prolungare la sua vita per non guastare il matrimonio. Allora fa chiamare il prete e si confessa. Racconta il narratore: dopo «non parlò più, non si lamentò più». Efix esclama: «Come sono contento! Adesso posso morire».
Ad Efix è lasciata la confessione su chi sia l’uomo: una canna al vento. «La sorte è il vento. […]Perché questa sorte? Dio solo lo sa. Sia fatta allora la sua volontà». In un mondo in cui ci sono la sofferenza e la fatica come dato ineluttabile l’uomo può accettare la volontà di Dio o rifiutarla.

Il grande filosofo Pascal aveva definito l’uomo «canna pensante» (Pensieri), Chretien de Troyes lo aveva descritto come «un peccatore che dipende da Dio» (Perceval). Per piccolo che sia, per peccatore che sia, nonostante il peso del rimorso del passato, l’uomo non è solo e il suo peccato può essere redento. Anzi proprio il peccato è la scaturigine della dedizione e dell’offerta della vita di Efix. Ad un certo punto «Efix s’inginocchia ma non prega, non può pregare, ha dimenticato le parole; ma i suoi occhi, le mani tremanti, tutto il suo corpo agitato dalla febbre è una preghiera». La vita stessa e il nostro corpo possono divenire offerta e preghiera, come Cristo in croce. Così, anche all’inizio del romanzo, il narratore racconta riferendosi ad Efix: «Aveva lavorato tutto il giorno e adesso, in attesa della notte, mentre per non perder tempo intesseva una stuoia di giunchi, pregava perché Dio rendesse valido il suo lavoro. Che cosa è un piccolo argine se Dio non lo rende, col suo volere, formidabile come una montagna?». Efix ha lavorato al meglio con la consapevolezza che tutto dipende da un Altro, da quel Dio che ha creato tutto. La realtà stessa sembra rendere gloria a Dio, mentre i personaggi pregano: «A quell’ora, mentre la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina e le euforbie odoravano lungo il fiume, anche le padrone di Efix pregavano: donna Ester, la più vecchia, benedetta ella sia, si ricordava di certo di lui peccatore: bastava questo perché egli si sentisse contento, compensato delle sue fatiche».

Si avverte la lezione dei grandi romanzieri russi, su tutti Dostoevskij, anche se, come avverte il critico Emilio Cecchi, «le sue [della Deledda] predilette frequentazioni della Bibbia, di Omero, dei romanzieri russi, del Manzoni e del Verga, stanno nella sua esperienza più come un fatto vissuto che come un fatto letterario». Ci insegna la scrittrice che la presenza del peccato come prova nella vita, se guardata e accettata, può esaltare la parte più alta e bella dell’umano. La consapevolezza del male compiuto e di quello di cui siamo capaci diventa la possibilità di comprendere la necessità di una redenzione e di una salvezza che non possono che provenire da un Altro, a cui convertirsi. La nostra redenzione inizia già in questa vita, come mostra il vecchio servo Efix.