VERSO IL REFERENDUM/17

Gli ordini professionali e il rischio del liberismo

Le corporazioni, oggi gli ordini professionali, sono state la bestia nera del liberalismo di matrice illuminista: la loro struttura comunitaria, tesa a garantire professionalità e rispetto della morale connessa all’esercizio di uno specifico lavoro intellettuale, contrasta con il dogma che è il mercato l’arbitro esclusivo del prezzo di una prestazione. E questro sarà a rischio col Referendum.

Politics 21_11_2016

Con l'intervento dell’avv. Stefano Nitoglia  prosegue la collaborazione del Centro studi Livatino (www.centrostudilivatino.it) tesa a illustrare i passaggi più significativi della riforma costituzionale e a sottolinearne i profili problematici, allo scopo di avvicinarsi alla scadenza del voto referendario avendo consapevolezza dei contenuti delle modifiche, e lasciando da parte gli slogan. Gli interventi sono pubblicati ogni lunedì e giovedì. Quello che compare oggi torna tocca una aspetto in ombra della rifoma: quello delle sue ricadute sugli ordini professionali. Ricordiamo che, trattandosi di referendum confermativo, non è necessario il quorum: chi non condivide la riforma non può confidare su un numero elevato di astenuti: la sola strada per manifestare il proprio dissenso è votare No.

Disintermediazione è una delle parole d’ordine più care al presidente del Consiglio. Vale a qualificare uno dei tratti in senso lato culturali della riforma costituzionale sponsorizzata dal premier. E’ altresì un termine che nella comunicazione viene associato alla sua ascesa politica: una sorta di codice consistente nel rivolgersi direttamente al pubblico, ossia agli elettori, bypassando i media tradizionali, ma anche i corpi intermedi” (lo scriveva due anni fa Goffredo Pistelli “Via i corpi intermedi parassitari. Dai sindacati dei magistrati alle varie organizzazioni” in Italia Oggi, 12 novembre 2014). Un termine che Renzi ha adoperato più volte, anche negli incontri della Leopolda.

Tra i corpi intermedi da disintermediare vi sono gli ordini professionali. L’attacco in realtà è stato mosso già durante il governo Monti. L'articolo 10 della legge 12 novembre 2011 n. 183, che ha convertito in legge il decreto legge 13 agosto 2011 n. 138, il c.d. Cresci-Italia, disponeva la riforma degli ordinamenti professionali in coerenza con i canoni della liberalizzazione, e introduceva l'esercizio delle professioni in forma societaria. Nell’occasione l’allora ministro della Giustizia Severino spiegava che “abbiamo cercato di coniugare due concetti, la rimozione degli ostacoli alla libera concorrenza e il miglioramento della qualità delle prestazioni professionali"  (Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2012, pag. 10). Queste misure seguono altre, introdotte in precedenza e in qualche modo preparatorie di quelle attuali: penso, relativamente alla professione forense: a) all’abolizione delle tariffe minime, che si è tradotta in un regalo ai cosiddetti poteri forti, quali banche, grande industria ed assicurazioni. Ciascuna di queste realtà è oggi in grado di imporre alla categoria degli avvocati la propria forza contrattuale, con compensi indecorosi, senza alcun vantaggio per la clientela ordinaria; b) alla cosiddetta media conciliazione obbligatoria, propedeutica alla normale azione giudiziaria, con la quale si è effettuata una (costosa) privatizzazione di fatto della giustizia; c) all’aumento esponenziale dei costi dei processi; d) alla indiscriminata cancellazione di presìdi territoriali di giurisdizione, quali Tribunali e Procure. Sono provvedimenti il cui obiettivo ultimo è la vera e propria soppressione degli ordini professionali, in coerenza con l'orientamento di disintermediazione di Renzi. 

La fase liberista che stiamo vivendo ha avuto inizio nei primi anni 1990, nel momento in cui venne lanciata la parola talismano “liberalizzazioni”. Il 2 giugno del 1992, a bordo del panfilo Britannia, i più influenti esponenti del mondo della politica e della finanza italiane (fra i quali Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, il presidente di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi, Beniamino Andreatta, Mario Baldassarri, i vertici di Iri, Eni, Ina, Comit e delle grandi partecipate), incontrarono Herman van der Wyck, presidente della Banca d’investimenti britannica S. G. Warburg & Co, Jeremy Seddon direttore generale della Barclays e altri rappresentanti della grande finanza internazionale. Nello stesso anno l’Iri, l’Eni, l’Enel e l’Ina vennero trasformate in società azionarie e le relative azioni assegnate al Ministero del Tesoro. Nel 1993 il gruppo Sme, controllato per il 64% dall’Iri, fu privatizzato così come Telecom, Ina, Imi ed Enel. Si stima che tra il 1992 e il 1999, l’Italia abbia realizzato cessioni di quote di aziende pubbliche pari a 185 miliardi di lire, circa il 12,3% del Pil (Gabriele Repaci, “Liberalizzazioni e privatizzazioni: le realtà oltre l’ideologia”, in Geopolitica, rivista on line dell’Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie, 5 febbraio 2012).

Gli ordini professionali sono persone giuridiche di diritto pubblico a struttura corporativa (Carlo Lega, voce “Ordinamenti professionali”, in Novissimo Digesto Italiano, vol. XII, pag. 10, Torino, 1965); e le corporazioni sono state, da sempre, la bestia nera del liberalismo filosofico e del liberismo economico, entrambi di matrice illuminista: la loro struttura comunitaria, tesa a garantire professionalità e rispetto della morale connessa all’esercizio di uno specifico lavoro intellettuale, contrasta con il dogma che è il mercato l’arbitro esclusivo del prezzo di una prestazione, per quanto delicata essa sia. L’individualismo illuminista è stato continuamente contrario ai corpi intermedi tra lo Stato e gli individui, come le corporazioni. Non è un caso che il primo provvedimento contro le corporazioni sia stato preso da Robert Jacques Turgot (1727–1781), economista e filosofo francese appartenente alla scuola detta fisiocratica, ministro delle Finanze di Luigi XVI. La fisiocrazia, dottrina economica che si affermò in Francia verso la metà del XVIII secolo, si basava sulle opere del medico ed economista transalpino François Quesnay, amico e sodale degli illuministi d’Alambert, Diderot, Buffon e Condillac, e collaboratore all’Encyclopédie. In Italia, le soppressioni delle corporazioni iniziarono nel 1770 nella Toscana del “sovrano illuminato” Pietro Leopoldo e proseguirono, tra il 1778 e il 1786, nel Lombardo Veneto, governato, all’epoca, dal sovrano asburgico Giuseppe II (in associazione con la madre Maria Teresa fino al 1780), tipico rappresentante del “dispotismo illuminato”. Ma fu con la Rivoluzione francese (1789–1799), anch’essa ispirata alla c.d. filosofia dei lumi, che la soppressione delle corporazioni ebbe compimento con la legge Chapelier del 17 giugno 1791. 

Passata la buriana rivoluzionaria, le corporazioni si ricostituirono un po’ in tutta l’Europa nei primi anni del XIX secolo, conservando alcuni tratti tradizionali dei vecchi ordinamenti, pur senza gli antichi privilegi e sono vissute, almeno in Italia, fra alterne vicende, fino a oggi. Ora il rinascente liberismo, che va da quello soft, tinto di socialismo, una sorta di lib-lab, al momento prevalente in Italia, a quello più estremo, dell’anarco-capitalismo, molto diffuso negli Stati Uniti, vede le realtà eredi delle antiche corporazioni di nuovo sotto attacco. Soltanto un esatto inquadramento del fenomeno della disintermediazione, nel quale rientra anche la riforma costituzionale, sulla quale andremo a votare il 4 dicembre, sulla base delle sopra descritte categorie politico-filosofiche, può contribuire a fornire gli strumenti per un’efficace azione di contrasto nei suoi confronti. Per il momento il No servirà a manifestare dissenso per un percorso culturale, istituzionale e politico che parte da Leopoldo (di Toscana) e arriva alla Leopolda!

*Centro studi Livatino