PERSECUZIONE

Anche Amnesty dimentica i cristiani dell'Iraq

Il rapporto di Amnesty International documenta ampiamente gli orrori dello Stato Islamico dell'Iraq e della Siria, con numerose testimonianze dei sopravvissuti yezidi. Ma dimentica un dettaglio: anche i cristiani sono perseguitati. Eppure nel rapporto leggiamo poco o nulla riguardo il loro caso.

Religious Freedom 03_09_2014
Amnesty International

Dall’Iraq giunge l’altro video che si temeva di vedere da giorni. I guerriglieri dell’Isis hanno decapitato Steven Sotloff, giornalista freelance statunitense rapito a Raqqa, in Siria, un anno fa. Lavorava per numerose e prestigiose testate quali Time, Foreign Policy, Christian Science Monitor e World Affairs Journal. L’Isis aveva minacciato di decapitarlo nel momento in cui aveva assassinato il giornalista James Foley, se i raid americani contro le sue milizie in Iraq fossero continuati. I raid sono continuati e il movimento terrorista islamico, ignorando il disperato appello della madre del giornalista, ha mantenuto la crudele promessa.

La decapitazione di Sotloff aggiunge un capitolo in più alle atrocità commesse, su larga scala, in tutto l’Iraq occupato dal nuovo Stato Islamico. Crimini di pulizia etnica, massacri, rapimenti di donne e bambini ed esecuzioni di massa, documentati dal nuovo rapporto di Amnesty International, pubblicato ieri, dal titolo “Ethnic cleansing on a historic scale”. Questo documento aiuta l’opinione pubblica e soprattutto i media a sensibilizzarsi su un crimine di vasta scala (più di 830mila persone cacciate dalle loro case sotto la minaccia di sterminio) compiuto contro tutte le minoranze etniche e religiose del Nord dell’Iraq. Ma, stranamente, non aiuta a sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma che sta vivendo una di queste minoranze perseguitate dagli jihadisti, la più numerosa: i cristiani iracheni della piana di Ninive.

Il documento di Amnesty include crude descrizioni di esecuzioni di massa e massacri indiscriminati degli yezidi, nei villaggi della provincia di Sinjar. Sono episodi narrati da sopravvissuti, che spesso si sono finti morti per non essere uccisi: i massacri nei villaggi di Kocho, Qiniyeh, Jdali, tutti e tre a maggioranza yezida. Un capitolo molto dettagliato e carico di drammatiche testimonianze è dedicato anche al rapimento delle donne, compiuto su larga scala. Il copione, infatti, è sempre lo stesso: quando l’Isis conquista un villaggio, o convince (come nel caso di Kocho) i suoi abitanti ad arrendersi, prima spoglia dei loro beni le vittime, anche illudendole che in questo modo saranno risparmiate, poi passa alla separazione per genere: donne da una parte e uomini dall’altra. Infine, avviene il vero e proprio genocidio: gli uomini, bambini inclusi, sono portati in località remote e fucilati, mentre le donne, bambine incluse, sono prese come schiave. Secondo le testimonianze raccolte da Amnesty, sono vendute come spose a nuovi mariti guerriglieri. Nella maggioranza dei casi sono semplicemente e brutalmente violentate. Ebbene, tutte queste testimonianze riguardano quasi esclusivamente, le persecuzioni subite dagli yezidi. Solo un singolo caso documentato riguarda una cristiana, Kristina Khoder ‘Abada, una bambina di tre anni strappata dai guerriglieri dalle braccia della mamma.

Ma i cristiani non hanno subito persecuzioni? Solo gli yezidi hanno sofferto e stanno soffrendo per l’occupazione jihadista? Amnesty non dimentica le sofferenze di un’altra minoranza, quella dei turcomanni, appena liberati dall’assedio della cittadina di Amerli. Ma i cristiani? Di loro si accenna e basta. Nel capitolo sulle conversioni di massa, i due terzi dello spazio e tutte le testimonianze riguardano i soli yezidi. Dei cristiani si parla solo in occasione della distruzione dei luoghi di culto a Mosul, quando la chiesa dell’Immacolata fu danneggiata e la statua della Vergine Maria rimossa. Si parla della cacciata delle minoranze, fra cui i cristiani, della pressione alla conversione che riguarda anche loro: l’ultimatum “convertirsi o morire”, o pagare la tassa tradizionale, la jiziya. Niente altro.

A giudicare dal rapporto di Amnesty “nessun cristiano è stato ucciso o ferito”, come si legge a proposito degli animali al termine di un film d’azione. Nel descrivere la pulizia etnica, si dice che, trovandosi in cittadine e villaggi vicini alle principali vie di fuga, i cristiani avrebbero avuto tutto il tempo per lasciare le loro case. Di fatto le persecuzioni avrebbero riguardato solo coloro che non hanno fatto a tempo a fuggire. Eppure, a giudicare dagli appelli lanciati dal patriarca caldeo Raphael Sako e dalle testimonianze giunte ad Aiuto alla Chiesa che Soffre la tragedia dei cristiani iracheni è ben più vasta. Sbalordisce anche la tempistica di questo rapporto Amnesty, che riguarda i massacri di agosto, pressappoco da quando è iniziato l’intervento statunitense in Iraq e da quando le notizie su quel che avviene nella piana di Ninive e in Kurdistan sono arrivate in prima pagina. Eppure il grosso della pulizia etnica ai danni dei cristiani è stato condotto nei mesi di giugno e luglio, quando sui nostri giornali (e probabilmente anche nelle sedi di Amnesty) si parlava quasi solo della guerra a Gaza.

Senza fare una gara di vittimismo, su chi ha subito più morti per mano di un carnefice comune, è però triste notare come i cristiani perseguitati non facciano mai notizia, non destino mai l’interesse delle grandi associazioni per la difesa dei diritti umani. Nemmeno quando il luogo della loro persecuzione è al centro dell’attenzione del mondo. E nemmeno quando il persecutore, con le decapitazioni di Foley e ora anche di Sotloff, lancia un chiaro messaggio di minaccia al mondo occidentale cristiano.