DA EVENTO A PROCESSO

Il Sinodo permanente, stortura che accresce i timori

La decisione di Francesco di prolungare al 2024 il Sinodo sulla sinodalità si fonda sull’idea che esso «non è un evento ma un processo». Ciò accresce i timori per la Chiesa. I sinodi non hanno mai avuto valore deliberativo, ma solo consultivo. La nuova concezione di sinodalità punta invece a collocarsi a fianco del Papa e non sotto il Papa.

Editoriali 20_10_2022
Nuovo logo Sinodo fino al 2024

Il Sinodo sulla sinodalità si allunga e da evento si fa processo. Il Sinodo dei vescovi sulla sinodalità avrebbe dovuto tenersi nel 2023, preceduto da due anni dedicati all’“ascolto”, durante i quali ogni diocesi, ogni nazione e ogni continente avrebbe dovuto celebrare il proprio sinodo, non per “dire” ma per “ascoltare”. Questo processo di ascolto avrebbe dovuto concludersi con un evento, ossia il Sinodo del 2023. E poi basta. In continuità con il passato, quando appunto i sinodi si aprivano, si tenevano e poi si chiudevano, mettendo i risultati nelle mani del papa.

All’Angelus del 16 ottobre scorso, Francesco ha comunicato la sua decisione di prolungare il Sinodo previsto per il 2023 anche nel 2024: un biennio sinodale. Il motivo contingente sembrerebbe essere l’insoddisfazione su come sia andata la fase dell’“ascolto”. Ma il motivo vero, a detta del comunicato degli organi centrali del Sinodo, è di trasformare il Sinodo da evento a processo: «Il Sinodo non è un evento ma un processo». In questa breve frase è contenuta una rivoluzione della sinodalità e, se finora abbiamo dovuto esprimere molte riserve sul percorso in atto, questo nuovo passaggio aumenta i timori e le preoccupazioni.

Il Sinodo dei vescovi fu istituito da Paolo VI nel 1965 per dare corpo alla collegialità enfatizzata dal Vaticano II nella forma appunto della sinodalità. I sinodi non hanno mai avuto valore deliberativo, ma solo consultivo. I vescovi sinodali si raccoglievano a riflettere attorno ad un problema della Chiesa e poi esprimevano le loro conclusioni, raccolte in un documento finale, che mettevano nelle mani del papa, il quale scriveva un’esortazione apostolica post-sinodale, a valore magisteriale. Una volta pubblicata l’esortazione, i lavori sinodali e le stesse conclusioni del sinodo venivano dimenticati, oppure lasciati al lavoro degli storici.

Con Francesco le cose hanno cominciato a cambiare, nel senso di far emergere maggiormente l’autorità – non solo ausiliaria – del sinodo stesso. La grande novità è ancora una volta rappresentata dal Sinodo sulla famiglia degli anni 2014-2015. Come si ricorderà, Francesco volle che due passaggi piuttosto rivoluzionari, bocciati a maggioranza dai vescovi in assemblea, rimanessero ugualmente nel documento finale. Inoltre, all’inizio dell’esortazione post-sinodale Amoris Laetitia scrisse che egli in quel documento non si riprometteva altro che dare voce al Sinodo, abbassando così il tono del suo intervento. Sappiamo tutti che quel Sinodo non fu condotto in modo sinodale ma fu pilotato dal centro, per iniziare una trasformazione del sinodo secondo la nuova concezione di sinodalità.

Nel frattempo, qualcosa di analogo era già avvenuto nei sinodi diocesani. Per esempio, il documento finale del sinodo della diocesi di Bolzano-Bressanone degli anni 2014 e 2015 conteneva affermazioni molto deviate sul piano dottrinale. Il vescovo diocesano fu naturalmente avvertito della cosa, ma disse la famosa frase: «Chi sono io per oppormi al sinodo?», una versione altoatesina del «chi sono io per giudicare?». In questo caso, il significato del sinodo non venne inteso come consultivo, ma deliberativo e normativo, anche in campo dottrinale oltre che pastorale.

D’altronde, fin dalla Evangelii gaudium, anch’essa un’esortazione post-sinodale di un sinodo però voluto e attuato da Benedetto XVI, Francesco parla di decentramento dottrinale, sostenendo che non tutte le questioni di tale portata vadano decise ai vertici. Avrebbe avuto quindi ragione il vescovo di Bolzano-Bressanone, nel sottomettere la propria autorità magisteriale a quella del sinodo diocesano. Non c’è chi non veda le trasformazioni di grande portata che questa prospettiva ha sulla concezione della struttura della Chiesa. Non a caso i teologi di punta insistono molto sul collegamento tra questa fase cattolica della sinodalità con la sinodalità nella Riforma e nell’Ortodossia, come fa per esempio l’ultimo numero di Studia patavina.

Si comprende così l’importanza del passaggio del sinodo da evento a processo contenuto nelle motivazioni dell’estensione del prossimo sinodo al biennio 2023-2024. Il nuovo concetto di sinodalità ha certo bisogno di concretizzarsi in un sinodo, anche se la retorica oggi diffusa sostiene che tutta la Chiesa deve essere sinodale, compresa una piccola parrocchia di montagna, però non nel vecchio sinodo, troppo stretto per poter ospitare questo nuovo concetto di sinodalità. Troppo ridotto ad evento consultivo. La nuova sinodalità ha bisogno di un sinodo nuovo, un sinodo permanente e deliberativo, un sinodo sempre aperto perché la nuova sinodalità sarebbe sempre in atto, e un sinodo che non mette più le proprie conclusioni nelle mani del papa. In altre parole, un sinodo che permanentemente si collochi a fianco del papa e non sotto il papa.

A quel punto non avremo più un’esortazione apostolica post-sinodale, genere della letteratura ecclesiale in via di esaurimento. Chissà, infatti, se dopo il biennio sinodale 2023-2024 Francesco ne scriverà una. Io prevedo di no.